È un afoso pomeriggio di fine agosto e turisti provenienti da ogni dove affollano le spiagge di Gallipoli. In auto percorriamo la strada statale che costeggia i lidi, in direzione Santa Maria di Leuca. Il caldo è schiacciante, la temperatura supera i quaranta gradi. Mentre ci allontaniamo dalle spiagge, il canto sordo delle cicale sostituisce la musica confusa degli stabilimenti balneari. Basta una manciata di chilometri per cambiare scenario. Le attrazioni estive dell’Ibiza del Sud lasciano il posto alla più amara desolazione: ovunque, campi deserti puntellati di ombre. Terre incolte, cimiteri rurali abbandonati, cadaveri arsi: questo è ciò che rimane degli olivi del Salento dopo l’epidemia di Xylella fastidiosa. A distanza di circa venti chilometri dalla partenza, il panorama non muta. Nel nulla che resta, la vita di residenti e vacanzieri continua indisturbata. I giorni in cui tutto ebbe inizio sembrano remoti, sfocati.
Quando tutto è cominciato
«Era l’estate 2013, proprio sotto questa veranda, quando mio suocero mi disse che alcuni dei suoi olivi non lo convincevano. Manifestavano un disseccamento strano». A ricordare le primissime battute di questa storia è Donato Boscia, ricercatore e responsabile della sezione di Bari dell’Istituto per la Protezione Sostenibile delle Piante del CNR, tra i principali protagonisti della vicenda Xylella. Dal patio dell’abitazione estiva di famiglia sciorina con fermezza date e numeri, quasi non fossero trascorsi otto anni. «Il 10 agosto ci recammo nel campo, un agro vicino a Gallipoli, perché volevo vedere di persona gli olivi di cui parlava. Da lì è iniziato tutto». Poche settimane dopo, le analisi su quegli alberi e il responso: grazie a un’intuizione di Giovanni Paolo Martelli, professore emerito e fondatore della scuola barese di patologia vegetale, viene individuato il DNA di Xylella fastidiosa.
La comunicazione al Servizio fitosanitario della Regione Puglia è immediata. «All’epoca, dalla letteratura scientifica sapevamo già in che modo si comporta e si trasmette il batterio. Vive e si riproduce solo nello xilema, ovvero nei vasi che trasportano la linfa grezza nella pianta, e finisce per occluderli, determinando la morte dell’olivo. Per diffondersi ha bisogno di un insetto capace di prelevare Xylella dai vasi della pianta infetta – mentre si nutre della linfa – e di trasmettere il batterio ad altre piante sane, nutrendosene allo stesso modo». Tra i possibili vettori della trasmissione, un insetto presente in maniera significativa nella zona, poi confermato: il Philaenus spumarius, noto come «sputacchina». Quello del Salento, agli occhi della scienza, appare fin da subito un caso preoccupante. «Nel 2013 il Servizio Fitosanitario Regionale aveva stimato che circa ottomila ettari nella zona compresa tra Gallipoli, Alezio e Taviano erano già colpiti dal batterio».
Moderne tecniche di telerilevamento aereo: l’analisi iperspettrale e le acquisizioni di sensori termici permettono un’efficace identificazione preventiva del disseccamento degli ulivi. Immagine gentilmente concessa dal CNR di Bari, 2019.
La genesi di Xylella fastidiosa e l’introduzione in Salento
Quando e come era arrivata Xylella in Salento? «L’ipotesi iniziale di introduzione di piante infette dalla Costa Rica è stata confermata da un’analisi bioinformatica dei genomi di Xylella, ormai numerosi, disponibili nella nostra banca dati genetica. Solo in Salento, nel corso degli anni, abbiamo isolato e sequenziato 70 genomi completi del batterio, prelevati in punti differenti e da specie vegetali diverse, non esclusivamente dall’olivo», spiega il ricercatore. I risultati individuano la genesi di Xylella fastidiosa subspecie pauca genotipo ST53 in Costa Rica, mentre stimano la prima introduzione del batterio in Salento circa nel 2008.
La Costa Rica è, dunque, l’unico luogo al mondo in cui è stato individuato proprio il genotipo ST53, responsabile della distruzione degli olivi salentini. Ma c’è di più. Il genotipo ST53 sarebbe arrivato attraverso una partita infetta di piante di caffè a scopo ornamentale.
In Costa Rica, infatti, a ospitare il batterio è proprio il caffè e non l’olivo che in quell’area è assente. «All’epoca, in Europa venivano importati ogni anno dalla Costa Rica oltre 40 milioni di piante ornamentali, di cui tremila di caffè. Sebbene si tratti di una piccola quota, la quasi totalità delle piante colpite dal batterio e bloccate alle frontiere dell’Unione europea era spesso di caffè. In otto casi su dieci proveniva dalla Costa Rica, nei restanti due dall’Honduras», spiega Boscia. A contribuire alla diffusione del batterio, una volta in Salento, una serie di condizioni favorevoli: quelle climatiche, ideali per la sopravvivenza di Xylella; una presenza diffusa e continua dell’olivo, rivelatosi l’ospite al momento più suscettibile a questo genotipo; l’abbondante presenza dell’insetto vettore Philaenus spumarius.
L’emergenza
Tra il 2013 e il 2014 i campionamenti e le indagini continuano, portando all’individuazione di nuovi focolai nel leccese. Le segnalazioni di olivi con sintomi riconducibili a Xylella, anche da parte di piccoli agricoltori, si moltiplicano. Si interviene con abbattimenti mirati ma non basta. La preoccupazione è crescente. Si assiste all’istituzione delle prime misure d’emergenza per contrastare la diffusione del batterio, adottate dall’Unione europea inizialmente nel febbraio 2014 e poi perfezionate a luglio dello stesso anno. Si delimita sulla mappa l’area infetta, individuando una fascia di eradicazione, una zona cuscinetto e un iniziale cordone fitosanitario. Il timore è che Xylella fastidiosa possa essere anche altrove, in Italia o in Europa, che varchi i confini regionali e quelli nazionali.
Un olivo pluricentenario colpito dalla Xylella viene espiantato. Dal 2019 vige l’obbligo di estirpare gli ulivi colpiti dalla Xylella fastidiosa. Le tipiche “cultivar” storiche, Cellina di Nardò e Ogliarola, potranno essere soppiantate con quelle considerate resistenti o più tolleranti al patogeno, come Leccino e Favolosa, più adatte ad una coltivazione intensiva, ma lontane dalla storia e dal paesaggio del Salento. Gagliano del Capo, Lecce, 2018
Fuoco in un campo di ulivi vicino a Ugento, nel Salento. Nella ricerca di un rimedio contro l’epidemia di Xylella, l’UE ha suggerito alcune “buone pratiche agricole” da attuare. Bruciare rami secchi colpiti, foglie ed erbacce spontanee, sarebbe un modo per limitare la diffusione del batterio. Ugento, Lecce, 2016.
A febbraio 2015, l’allora ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina annuncia la nomina di Giuseppe Silletti, comandante della Regione Puglia del Corpo forestale dello Stato, quale commissario delegato per l’attuazione degli interventi per far fronte all’emergenza. Tra le azioni previste, eradicazioni e abbattimenti.
Un nuovo focolaio, più a nord, nel brindisino, a Oria, acuisce violente tensioni sociali e blocca ogni azione, con più ricorsi al Tar da parte dei proprietari dei terreni interessati. «In quel caso, a Oria, come in molti altri, si sarebbe dovuti intervenire con l’abbattimento previsto degli olivi infetti e di quelli sani circostanti, posti nel raggio di 100 metri dalle piante malate individuate. Il piano operativo di Silletti era volto a questo: contenere il batterio, effettuando le azioni di eradicazione nella zona cuscinetto e poi, se necessario, anche in zona indenne. Il sacrificio di pochi ettari ci avrebbe consentito di raccogliere dati importanti sull’efficacia delle misure di eradicazione. A causa delle tensioni crescenti, l’intervento è stato effettuato in modo parziale. L’assenza dei dati che avrebbe potuto fornire Oria resta, a oggi, uno dei rammarichi più grandi dell’intera vicenda», ricorda Boscia.
Scienza, complottismo, magistratura e il blocco del piano Silletti
Mentre si cerca di frenare l’avanzata del batterio, alcune persone continuano a scagliarsi contro le azioni di contenimento, incatenandosi agli alberi al grido di “Giù le mani dagli olivi”. Personaggi pubblici diffondono sui social fantasiose tesi complottiste. Le manifestazioni si moltiplicano. Emblematica quella che a Lecce, il 29 marzo 2015, vede sul palco anche Nando Popu, cantante dei Sud Sound System e Giuseppe Serravezza, oncologo e presidente della Lega italiana per la lotta contro i tumori (Lilt) provinciale.
Ai timori per il futuro degli olivi salentini si affiancano, in un crescendo, quelli per la salute dei cittadini e l’anti-scienza. C’è chi sostiene che Xylella non sia responsabile del disseccamento degli olivi, chi crede si tratti di un piano mirato a cambiare il volto identitario del Salento per far posto a nuovi investimenti edilizi a scopo turistico. Altri imputano alla Monsanto la diffusione della “peste dell’olivo” per l’introduzione di olivi OGM o per lucrare sulla vendita di pesticidi e fitofarmaci, attraverso una fantomatica multinazionale brasiliana, la Allelyx. Sul ciglio della strada statale che collega Gallipoli a Lecce, all’altezza di un cavalcavia, campeggia una scritta: “Xylella è mafia”.
Ogni giorno si moltiplicano le voci di possibili cure prive di evidenze scientifiche, per lo più a base di solfato di rame e calce. Durante gli incontri locali, dai palchi, si propone agli agricoltori l’acquisto di un prodotto spacciato come risolutore, il Dentamet – una miscela di rame, zinco e acido citrico – oggetto di un controverso studio condotto da Marco Scortichini, ricercatore del CREA, e fortemente contestato per una serie di fallacie scientifiche e metodologiche. È caos. Le misure di contenimento rallentano, mentre lo scontro aperto tra scienza e anti-scienza avanza.
Gli insetti appartenenti ai gruppi sistematici Rhynchota come la cicala (nella foto) o Cercopoidea sono considerati i vettori della malattia della Xylella. Si nutrono di linfa xilematica contaminata, contraggono il batterio e lo trasmettono agli altri alberi. Gemini, Lecce, 2016
Emanuele e Francesco Coppola (padre e figlio) durante la preparazione del trattamento al caolino, una particolare roccia detritica e argillosa. Il caolino ostacola l’insediamento e la diffusione di insetti, funghi e batteri e fornisce protezione contro le alte temperature e la carenza d’acqua. Gemini, Lecce, 2016
Foglie di olivo dopo il trattamento con caolino (chiamato anche “argilla cinese”). Il caolino potrebbe ridurre i sintomi causati dalla Xylella fastidiosa ma non esiste un trattamento che garantisca la guarigione della pianta. I batteri della Xylella fastidiosa colonizzano i vasi xilematici della pianta ospite e bloccano il flusso di acqua e nutrienti con conseguente disseccamento di foglie e rametti. Gemini, Lecce, 2016
A maggio 2015, sulla base di una valutazione del rischio fitosanitario da parte dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA), l’Unione europea impone all’Italia misure ancora più severe (più volte perfezionate, e confluite nella (UE) 2015/789, poi modificata ad agosto 2020 nella (UE) 2020/1201).
Il punto di rottura si raggiunge a dicembre 2015, con l’iscrizione sul registro degli indagati di dieci persone tra ricercatori, scienziati, funzionari sanitari e commissari per l’emergenza fitosanitaria (tra questi anche Donato Boscia e Giuseppe Silletti, che di lì a poco si dimetterà), il sequestro degli olivi oggetto di indagine e il blocco effettivo del piano Silletti. A capo dell’inchiesta, aperta a seguito di esposti di associazioni ambientaliste, i pm Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci, e il procuratore di Lecce Cataldo Motta. Tra i reati imputati: diffusione colposa di malattia delle piante, inquinamento ambientale, falso materiale e ideologico in atti pubblici, getto pericoloso di cose, distruzione o deturpamento di bellezze naturali.
Con una vicenda che ha dell’incredibile, gli stessi scienziati responsabili dell’individuazione del pericoloso fitopatogeno in Salento vengono trascinati sul banco degli imputati e accusati di essere gli untori. Tra gli indagati, alcuni dei componenti della task force formata da 45 scienziati e messa in piedi proprio dal presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, solo un mese prima. In uno scenario già visto, che ricorda fin troppo da vicino le accuse mosse agli scienziati all’indomani del terremoto de L’Aquila nel 2009 o le terribili vicende del caso Stamina, la magistratura diffida la scienza, mettendo in discussione studi ed evidenze.
Xylella, dal 2019 a oggi
È il 2019 quando, con una sentenza, la Corte di Giustizia dell’Unione europea condanna l’Italia per i ritardi accumulati nelle ispezioni e nell’abbattimento di piante infette, stimando un danno di 1,2 miliardi di euro e oltre 21 milioni di olivi malati. Lo stesso anno gli scienziati indagati per l’affaire Xylella sono prosciolti da tutte le accuse, ma la questione non è chiusa. Dal 2013 a oggi, in più momenti, esponenti politici di vari partiti, tra tutti il Movimento 5 stelle, hanno cavalcato l’onda dell’anti-scienza, mettendo in discussione la reale responsabilità del batterio nella moria degli olivi salentini, promuovendo ipotetiche “cure alternative” e contribuendo, in molti casi, a dilatare i già lunghi tempi di intervento. Le azioni a tutela e ripristino del territorio, così come quelle a supporto di agricoltori e proprietari di aziende olivicole, sia a livello regionale che di governo centrale, sono state intermittenti, caratterizzate da una burocrazia lenta e farraginosa.
«Noi, però, non ci siamo mai fermati», sottolinea Boscia. Tra i progetti di ricerca messi in campo POnTe – Pest Organisms Threatening Europe e XF-ACTORS. Tra le collaborazioni internazionali più importanti, invece, quelle con Rodrigo Almeida e l’Università di Berkeley, in California, l’Institut national de la recherche agronomique (INRA) in Francia, il Consejo Superior de Investigaciones Científicas e l’Instituto Valenciano de Investigaciones Agrarias in Spagna. «Oggi l’epidemia salentina di Xylella fastidiosa è arrivata a Monopoli. Abbiamo casi a Polignano e ad Alberobello, con la recente identificazione di 15 piante colpite», spiega. Ma anche a Canosa, più a nord, in un vivaio, sono state individuate delle piante infette. «Si tratta di un caso molto simile a quello di Oria. Qui, di contro, si è agito con un intervento mirato e drastico. Confidiamo che tra poco più di un anno il focolaio potrà essere spento».
Come confermato dall’EFSA nel 2019, a oggi non esiste una cura per debellare il batterio ma la ricerca ha compiuto nuovi e fondamentali passi in avanti. «Rispetto alla velocità con cui si diffondeva in passato, la corsa di Xylella fastidiosa ora rallenta, grazie a più azioni: il controllo dell’insetto vettore, con arature e trattamenti insetticidi effettuati tra maggio e giugno; il monitoraggio e gli abbattimenti più tempestivi. Non è un traguardo banale. È proprio sulla rapidità di intervento e sulla severità delle misure applicate che si gioca la partita», ricorda Boscia.
Alberi colpiti dalla Xylella coperti da reti nel tentativo di evitare un’ulteriore diffusione dell’epidemia. Alla fine saranno tagliati ed eliminati. Maruggio, Taranto, 2020
Uno scienziato inocula il batterio della Xylella in un alberello di olivo. Questi test vengono eseguiti presso un dipartimento del CNR, l’Istituto per la protezione sostenibile delle piante, una delle principali istituzioni nazionali dedicate allo studio del parassita Xylella. Bari, 2019
Iscriviti alla Newsletter di RADAR
Potrai partecipare alla crescita del nostro magazine e riceverai contenuti extra
Le novità dalla ricerca e le prospettive future
Intanto, guadagnamo tempo per migliorare i nostri strumenti di contenimento e di convivenza con il batterio. Come? Con attività di ricerca su più fronti. «Quella principale prevede lo studio di resistenze, sia in varietà già note sia con l’individuazione di piante nate spontaneamente in Salento e presenti in zone infette. Un’altra strada prevede la possibilità di miglioramento genetico delle piante attraverso incroci con le varietà di olivo resistenti quali Leccino e Favolosa FS17. Tra le varietà più suscettibili al batterio, invece, ricordiamo: Ogliarola salentina, Cellina di Nardò, Coratina e Kalamata, che manifestano sintomi severi e gravi, e la Frantoio, con sintomi attenuati. Un ulteriore fronte di ricerca arriva dalla Spagna. «I colleghi dell’Instituto Valenciano de Investigaciones Agrarias all’inizio di quest’anno hanno isolato per la prima volta dei virus batteriofagi autoctoni in grado di attaccare Xylella fastidiosa. Sperimentata per ora solo in vitro, la ricerca ha dato risultati promettenti. Si attendono i test in vivo sugli olivi per valutare nuove prospettive in termini di cura».
Altri studi si focalizzano sul controllo della popolazione batterica nelle piante infette attraverso l’individuazione di molecole sostenibili dal punto di vista ambientale. Un’ulteriore ricerca, nata dalla collaborazione tra Università di Trento, l’istituto CIHEAM di Bari e la Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige individua nella biotremologia, ovvero nello studio delle vibrazioni meccaniche prodotte dagli insetti vettore, la possibile chiave per ridurre o arrestare la trasmissione del batterio a opera della sputacchina. «Grazie all’invio di messaggi vibrazionali siamo in grado di influenzare il comportamento alimentare di Philaenus spumarius, interferendo nel processo di nutrizione dell’insetto», spiega Daniele Cornara, un dottorato in Protezione delle Colture all’Università di Bari e oggi ricercatore all’Università di Berkeley, protagonista fin dal 2013 delle ricerche su Xylella. «Occorreranno ulteriori test per comprendere gli effetti sulla trasmissione del batterio».
Giovanni Melcarne, agronomo, e il suo assistente lavorano per trovare varietà di olivi resilienti nella loro serra speciale a Gagliano Del Capo in Puglia, una delle zone più colpite dalla pandemia di Xylella. La loro serra è accanto ad una serra principale costruita con i soldi raccolti dalla rivista tedesca “MERUM”, con la collaborazione della rivista “Der Feinschmecker”. In poche settimane sono stati raccolti oltre 25 mila euro, donati da lettori tedeschi, svizzeri e austriaci. Gagliano Del Capo, Lecce, 2020.
Germogli appositamente preparati di alberi spontanei resistenti alla Xylella vengono innestati in alberi morenti pluricentenari. Questo esperimento, condotto dall’agronomo Giovanni Melcarne, fa parte di un progetto più ampio per trovare soluzioni al parassita della Xylella. Gagliano Del Capo, Lecce, 2018.
Ora serve un piano di recupero per ciò che resta. «Una cabina di regia che preveda una collaborazione costante tra scienza e istituzioni, per mettere in campo un programma capace di ridisegnare il volto del territorio salentino. E, soprattutto, una comunicazione istituzionale chiara, capace di sconfessare le fake news che ancora circolano su questa storia e di non dare spazio all’infodemia», sottolinea Boscia. I primi passi sono stati fatti con il nuovo piano Xylella 2021 voluto da Donato Pentassuglia, assessore all’Agricoltura della Regione Puglia, e la creazione di un comitato scientifico multidisciplinare, che sostituisce la task force di Emiliano e vede tra gli esperti lo stesso Boscia, Daniele Cornara, Vito Nicola Savino, docente di agraria all’Università di Bari e dirigente del Centro di ricerca, sperimentazione e formazione in agricoltura “Basile Caramia”, Franco Nigro, docente di Patologia vegetale all’Università di Bari e Andrea Luvisi, docente e responsabile del Laboratorio di Patologia vegetale dell’Università del Salento.
Ulteriori novità riguardano anche l’utilizzo dei campi e la possibilità di impianto di specie identificate come ospiti di Xylella fastidiosa ST53, ma che presentano caratteristiche di resistenza. Oggi sappiamo che esistono 35 piante ospiti per questo genotipo. «Da qualche anno, la normativa comunitaria, pur vietando l’impianto di specie ospiti in zona infetta, consente agli Stati membri, in questo caso all’Italia, deroga al divieto, autorizzando il reimpianto di cultivar o specie preferibilmente resistenti o tolleranti, in zone lontane almeno cinque chilometri da quella di contenimento e dalla zona cuscinetto, quindi in tutta la zona infetta ad eccezione da quella di contenimento», specifica il ricercatore. È il caso del mandorlo che, pur essendo annoverato tra le specie ospiti, è scarsamente suscettibile a Xylella, e per il quale, insieme al ciliegio, di recente è stato autorizzato l’impianto ma – è bene ricordare – non l’esportazione né la produzione di piante (consentite, invece, per i frutti), per evitare potenziali rischi.
Un enorme graffito su un muro lungo la strada principale che da Lecce porta a Bari, fotografato nel gennaio 2019. La questione del parassita Xylella, che sta causando un collasso economico dell’intera Puglia, è perfetta per congetture di ogni tipo. In assenza di una versione ufficiale confermata al 100%, fioriscono le teorie del complotto.
Il ruolo delle aziende agricole locali
C’è chi, fin dalle prime battute della vicenda Xylella, ha tentato di offrire un contributo, supportando gli scienziati e la ricerca dal basso, letteralmente dal proprio campo. È il caso di Giovanni Melcarne, agronomo, imprenditore agricolo di Gagliano del Capo e presidente del consorzio Terra d’Otranto che, a causa del batterio, ha visto morire 50 ettari dei suoi olivi. «Tutto raso al suolo a eccezione del Leccino», racconta. Melcarne, che come molti altri ha testato sulla propria pelle gli effetti devastanti del patogeno da quarantena, oggi collabora con il CNR di Bari nella sperimentazione di innesti di piante altamente suscettibili a ST53 con varietà resistenti, e nella ricerca di semenzali e piante spontanee resistenti. «Siamo arrivati a innestare 14 ettari di olivi con circa 270 varietà.
Il lavoro in corso servirà a comprendere esattamente tutte le variabili implicate, affinché la pianta innestata risulti resistente a Xylella», spiega l’agronomo. La strategia, però, è di tipo preventivo. «Piante già sintomatiche, anche se innestate, difficilmente si salvano. È importante agire su olivi sani di varietà suscettibili per aumentarne notevolmente le chance di sopravvivenza».
Ma l’urgenza ora è un’altra. «Bisogna destinare dei fondi per ripulire il territorio dai cadaveri, liberare i campi dagli olivi ormai distrutti, ridisegnare il volto agricolo del Salento e permettere alle aziende di ripartire. Serve subito un piano». E qui entra in gioco la politica. «La problematica scotta. Sia a livello nazionale che locale, nessun politico si è realmente battuto per il Salento, anche per timore di perdere consensi», racconta con amarezza Melcarne. «Questa partita si è giocata sul populismo. Si continua a dare ascolto agli pseudo-ambientalisti, ciechi di fronte al disastro che si è compiuto. E, ancora oggi, nelle nuove zone di conquista del batterio, quando si procede con gli abbattimenti, si assiste a repliche e manifestazioni».
Più a nord, a una manciata di chilometri da Gallipoli, anche Enzo Manni, socio della Cooperativa ACLI di Racale, ha offerto fin da subito il suo contributo, facendo della sua azienda una base logistica di ricerca sul territorio, un vero e proprio osservatorio fitosanitario, a disposizione del CNR, dell’Istituto Agronomico Mediterraneo di Bari e del Centro “Basile Caramia”. Anche lui ha perso degli alberi, 200. «Nulla in confronto al disastro sull’intero territorio», specifica. Ma ora è tempo di elaborare il lutto e guardare avanti. «Il danno è incalcolabile. Serve una visione di cosa dovrà diventare il Salento e un’assunzione di responsabilità da parte della politica, che è tenuta a operare delle scelte. La perdita non si misura solo in termini agricoli. Gli alberi di olivo erano un bene prezioso. Avevano innescato un circuito virtuoso che portava investitori e turisti in Salento per festeggiare l’olio nuovo tra ottobre e novembre», continua Manni. «Ora serve un disegno. Un piano realizzabile di sviluppo agricolo. Basta con le scuse. È tempo di dare una speranza concreta al Salento».