Nell’Unione europea ogni anno si consumano 49 milioni di prodotti mestruali usa e getta. Nella maggior parte dei casi sono assorbenti che contengono plastica (considerando anche imballaggi, bustine e applicatori) e che si possono riciclare, ma vengono smaltiti in discarica o negli inceneritori. Negli ultimi anni, però, hanno iniziato a diffondersi gli assorbenti compostabili, spesso composti da un mix di cotone e bioplastiche. Ma come vanno smaltiti gli assorbenti compostabili? E vale la pena scegliere questi prodotti – più costosi degli altri – per ridurre l’uso di plastica usa e getta?
Alberto Confalonieri, Coordinatore del Comitato Tecnico del Consorzio Italiano Compostatori (CIC), ci spiega che la normativa prevede che i prodotti definiti come compostabili (che rispettano gli standard del settore) debbano essere raccolti tra i rifiuti organici. «Anche la normativa sui fertilizzanti, che disciplina le caratteristiche qualitative del compost, dice che tra i materiali che possono essere sottoposti a trattamento di compostaggio ci sono anche i prodotti sanitari assorbenti, a esclusione di quelli provenienti dagli ospedali e “previa sanificazione laddove necessario”. Su quest’ultimo aspetto per noi rimane un punto di domanda», spiega Alberto Confalonieri, specificando però che la quantità di prodotti mestruali compostabili (e in generale di prodotti assorbenti compostabili) è ancora così ridotta da essere considerata trascurabile nella raccolta dell’organico. E dunque, per il momento, la questione non è stata oggetto di molti studi nel settore.
Assorbenti: si trasformano davvero in compost?
Una questione che accomuna questi prodotti ad altri manufatti in bioplastiche, però, è la loro effettiva degradazione negli impianti di gestione dei rifiuti organici. Nel 2022, Greenpeace Italia aveva lanciato l’allarme con un report che affermava che la maggior parte degli impianti in Italia non sarebbero in grado di trattare efficacemente questi materiali, che non si degraderebbero e verrebbero poi smaltiti in discarica o in inceneritori. Una conclusione contestata da associazioni e consorzi del settore, come Assobioplastiche e Biorepack.
Anche Stefano Ghetti, Responsabile della filiera Compostaggi e Digestori di HERAmbiente, ha sollevato con noi un dubbio simile: «Negli impianti più moderni, il tempo dedicato al processo aerobico di compostaggio si è ridotto a circa una trentina di giorni [preceduto da circa 30 giorni di digestione anaerobica]. Questo processo misto permette di rinforzare la digestione e di arrivare a ottenere delle buone prestazioni energetiche degli impianti, ma quei 30 giorni di digestione aerobica incidono molto meno sulla degradazione dei materiali realizzati in materiali come le bioplastiche. Una cosa, poi, è compostare il sacchetto molto sottile che si utilizza per l’organico, un’altra cosa è compostare una forchetta, che ha un certo spessore, una certa rigidità».
Il dubbio è che questi prodotti, più rigidi o formati da strati sovrapposti di materiali diversi, non si degradino a sufficienza, e a fine trattamento siano ancora pressoché integri – e dunque da smaltire in inceneritore o in discarica.
LEGGI ANCHE: La levatrice della discarica di Giacarta
Cosa succede agli assorbenti compostabili negli impianti di smaltimento
Una volta raccolto con la frazione organica, un assorbente compostabile (ma anche un piatto, un bicchiere o un sacchetto di bioplastica) viene gestito in impianti che possono essere anche molto diversi tra loro. Secondo Alberto Confalonieri del CIC, in Italia gli impianti che trasformano i rifiuti organici sono circa 360: «Oltre agli impianti di compostaggio, ci sono quelli integrati e quelli anaerobici, e tra gli anaerobici ci sono almeno 7-8 declinazioni tecnologiche diverse, ognuno con le sue peculiarità. Ci sono gli impianti che applicano dei pretrattamenti meccanici, altri che non li hanno».
I pretrattamenti meccanici servono a separare dalla frazione organica raccolta eventuali materiali “estranei” – sacchetti di plastica, lattine, vasetti di vetro – che in alcuni tipi di impianti riducono l’efficienza del processo e vengono separati all’inizio del trattamento invece che alla fine. Visto che è un’operazione meccanica, che non identifica il tipo di materiale, separa anche le bioplastiche, che dunque non hanno l’occasione di essere riciclate. In altri impianti, invece, è ciò che rimane a fine processo ad essere sottoposto a valutazione oppure a fare un altro giro nell’impianto, se non si è degradato a sufficienza.
La diversità di approcci e la quantità – ancora limitata – di rifiuti compostabili rigidi rende complesso dare una risposta conclusiva. Per il momento, sappiamo che la gran parte dei prodotti in bioplastica che finiscono nella raccolta dell’organico è composta di sacchetti e imballaggi, che si degradano molto più velocemente rispetto a prodotti relativamente spessi come gli assorbenti. In realtà, però, concentrarsi su come smaltiamo i nostri assorbenti potrebbe essere l’approccio sbagliato.
Nel dubbio, meglio evitare i rifiuti
I prodotti mestruali non sono poco studiati solo quando diventano rifiuti: in generale, il numero di studi sulla loro sostenibilità è molto limitato. Per fare chiarezza, nel 2021 il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) ha condotto una meta-analisi raccogliendo gli studi sugli impatti che i prodotti mestruali hanno nel loro intero ciclo di vita (Life Cycle Assessment).
Il risultato che è emerso è che gli impatti delle ultime fasi di vita del prodotto – dalla distribuzione allo smaltimento – sono molto meno significativi di quelli che avvengono all’inizio, durante la produzione. I prodotti usa e getta consumano risorse preziose – plastica, cotone, acqua, energia – senza la possibilità di recuperare materia con il riciclo. I prodotti riutilizzabili, invece, hanno impatti ambientali nettamente minori: anche se possono essere più onerosi da produrre, il loro ciclo di vita più lungo permette di attutire il loro impatto.
Quella che si attesta come la scelta con impatto ambientale più limitato è la coppetta mestruale, che se usata per un solo anno “recupera” sui suoi impatti di produzione rispetto agli assorbenti convenzionali. Non tutte le persone che hanno il ciclo, però, possono o vogliono usarla: il report evidenzia come la coppetta possa a volte non essere un’alternativa accettabile per ragioni sanitarie, igieniche e culturali, e come al momento ci sia un’estrema carenza di studi in merito.
La soluzione, però, non deve per forza essere una sola: anche scegliere di usare una combinazione di assorbenti lavabili, coppetta e assorbenti usa e getta, a seconda della situazione, è una strategia efficace. I prodotti che richiedono meno materiale – più leggeri, con meno imballaggi – sono in generale più sostenibili, perché riducono gli impatti nella fase di produzione. Quella realmente più significativa.