Vivere per sempre, ma in un eterno lockdown

La sconfitta della morte grazie ai progressi della medicina è un tema ricorrente nella fantascienza, dove è quasi sempre associata alla perdita di alcune libertà individuali. Una condizione per certi versi simile a quella sperimentata durante la pandemia.

5 minuti | 13 Dicembre 2022

Testi di Marco Boscolo
Illustrazioni di Eliana Odelli

Lea non lo riconosce subito. È un odore dolciastro mescolato al bruciacchiato che la disgusta. Eppure le provoca un aumento della salivazione. Poi lo vede: è un uomo ben vestito davanti a una griglia dove si stanno cucinando bistecche di vera carne. Per poco Lea non vomita, ma riesce a controllarsi e a mantenere un aspetto normale. Quello a cui si trova non è un party qualsiasi, ma un raduno illegale dove oltre alla carne si consumano altri alimenti proibiti, soprattutto alcolici. E dove si celebra la possibilità di rinunciare a una vita indefinitamente lunga e morire.

È solo una delle scene del romanzo di esordio di Rachel Heng, Suicide club, che però ci fa intravedere come la società in cui vive la protagonista sia molto simile alla nostra, ma presenti alcuni aspetti inquietanti. Per cominciare, Lea ha cento anni esatti, ma ne dimostra una quarantina, grazie agli interventi medici avanzatissimi a cui si sottopone ciclicamente. E al momento in cui ne facciamo la conoscenza è in trepidante attesa di scoprire se lei e il marito sono stati selezionati per la cosiddetta terza ondata che garantirebbe l’immortalità. In questo mondo, estremamente classista, dove alle cure mediche avanzate può accedere solo chi ha il patrimonio genetico giusto, qualcuno non è felice della prospettiva di vivere indefinitamente e ha messo in piedi l’organizzazione clandestina che dà il titolo al romanzo e che aiuta a morire chi lo desidera con azioni spettacolari diffuse sui social network.

Suicide club: longevità e controllo

Suicide club non è certo il primo romanzo di fantascienza che parla della potenziale sconfitta della morte, e non è nemmeno questo il nucleo centrale della storia. Il punto è che la società degli Stati Uniti, dove è ambientato, ha ottenuto questi grandi risultati di longevità con un controllo sempre più massiccio della vita, anche più intima, delle persone. Ogni comportamento quotidiano è in qualche modo regolato da una direttiva del governo, che indica quanto tempo possiamo passare seduti alla scrivania sul posto di lavoro, che tipo di musica è lecito ascoltare (spoiler: quasi nessuna), che tipo di esercizio fisico è giusto e corretto fare. Preservare l’aspettativa di vita degli altri e di se stessi è talmente centrale che far emozionare qualcuno, per esempio facendolo arrabbiare, è considerato un comportamento antisociale, potenzialmente punibile.

La storia di Lea ruota, non a caso, attorno a un evento inaspettato: il possibile ritrovamento di suo padre che ha abbandonato la famiglia 80 anni prima, che spalanca una finestra di irrazionalità inaspettata e incontrollabile nella sua vita. Come se il controllo che la società esercitava fino a quel momento su quello che fa e pensa sia stato inclinato e piano piano la sua vita si trovi a scivolare in direzione opposta alla terza ondata. 

Rachel Heng conosce bene l’idea di uno Stato che regola molto fortemente la vita dei cittadini e delle cittadine. Prima di trasferirsi negli Stati Uniti, infatti, Heng è nata e cresciuta a Singapore, forse il paese al mondo con uno dei maggiori controlli sul comportamento delle persone. A Singapore, per esempio, non si può fumare praticamente da nessuna parte, nemmeno all’aperto.

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Nuove malattie, nuove cure

Heng è molto interessata a farsi domande anche sul fronte della finanziarizzazione della salute: le persone ultracentenarie, infatti, investono in aziende che producono organi sostitutivi e ne ricavano di che poter vivere senza lavorare. Si tratta di una critica nemmeno troppo velata al capitalismo finanziario che permette a una fetta relativamente piccola della popolazione mondiale di accedere ai servizi sanitari migliori, mentre il resto della popolazione non ha accesso a farmaci di base che garantirebbero migliori condizioni di vita.

Grande accusatore di questa capitalizzazione e finanziarizzazione della salute fu il pensatore austriaco Ivan Illich, che nel 1975 pubblicò Nemesi medica. Nella sterminata produzione dell’autore, il libro rappresenta un contributo rilevantissimo della sociologia medica. Illich sosteneva che è funzionale alla classe medica individuare sempre nuove malattie che generano nuove esigenze di cura, giustificando sempre di più la rilevanza della medicina nelle società occidentali. Una medicina che quindi ha sempre più potere all’interno della società. 

Ora, dopo aver vissuto la pandemia di COVID-19 sarebbe fin troppo facile, ma al contempo sbagliato, leggere Illich e Suicide club come argomentazioni a sostegno di chi ha definito illiberali e antidemocratici interventi come i lockdown e gli obblighi vaccinali. Non è di questo che si sono occupati né Illich, né Heng. Il punto è piuttosto quanto poco siamo capaci di partecipare delle scelte collettive che facciamo e di quali siano i limiti degli attuali strumenti di partecipazione al dibattito democratico su cosa è giusto o sbagliato fare in una determinata situazione. Soprattutto, quella di Heng non è un’accusa al successo della medicina, ma del fatto – semmai – che ne siamo talmente abituati che lo diamo per scontato. Invece dovremmo interrogarci di più su questo punto, ma per farlo dovremmo essere capaci di guardarci dall’esterno.

Lockdown esistenziale

Lo fa Elijah Baley, il protagonista dei romanzi sui robot scritti da Isaac Asimov. Nel secondo romanzo della serie, Il sole nudo (originariamente pubblicato nel 1956), il poliziotto terrestre viene chiamato a risolvere un omicidio su Solaria, un pianeta dove vivono solamente ventimila esseri umani. Su Solaria l’avanzamento della scienza, e della robotica in particolare, consente di vivere per centinaia di anni. Ma il prezzo da pagare è il totale isolamento di ognuno dei suoi abitanti, che considerano disgustoso vedersi di persona e completamente inappropriato toccarsi, in una specie di lockdown permanente in cui si vedono solo su schermo. 

Come Lea e i membri del suicide club, anche i solariani vivono in una solitudine esistenziale che è evidente per Baley che viene dall’esterno, ma non per chi vive in quel sistema. Illich sosteneva che la società contemporanea aveva perso il senso della convivialità, un elemento essenziale per il progresso dell’umanità. A guardare Solaria o gli Stati Uniti immaginati da Heng, descritti in libri distanti quasi ottant’anni, si trova proprio questo filo a unirli: la tecnica è importante per garantirci di vivere bene e a lungo, ma se questa erode spazi di umanità deve almeno essere una scelta consapevole.

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  • Eliana Odelli

    Eliana Odelli è art director, illustratrice, grafica, designer e autrice. Co-fondatrice del collettivo artistico Balene In Volo.
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    Marco Boscolo è giornalista e science writer con la passione per i dati. I suoi contributi appaiono su Le Scienze, il BoLive, il Tascabile, Aula di Scienze Zanichelli e altrove. Con Elisabetta Tola ha scritto “Semi ritrovati” (Codice 2020). Ha realizzato reportage per Radio3Scienza, Radio Popolare e Radio France Internationale. Con Michele Catanzaro ha vinto il Premio Colombine 2021 per una serie di reportage sulle scienziate africane. È socio di formicablu, agenzia di comunicazione e giornalismo scientifico.

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