Si chiamano rittochino, girapoggio, cavalcapoggio, ciglionamenti e terrazzamenti: sono le sistemazioni idraulico-agrarie, modelli di gestione del territorio nati per regolare la portata dei corsi d’acqua e difendere i versanti delle colline e delle montagne dall’erosione, dalla perdita di suolo e dal rischio idrogeologico. Le sistemazioni idraulico-agrarie sono elementi che hanno plasmato il paesaggio rurale e i cui segni sono talvolta ancora visibili nelle nostre campagne.
Si tratta di una storia minore, fatta dagli agricoltori e nota forse solo agli studiosi e agli studenti di Scienze agrarie. Con l’abbandono delle campagne e l’intensificazione colturale dell’agricoltura moderna, le tracce delle storiche sistemazioni idraulico-agrarie sono quasi scomparse, appannaggio ormai solo di pochi territori presidiati da un’agricoltura marginale che non a caso è definita “eroica”.
La storia e le passate esperienze di gestione del territorio meritano di essere raccontate, anche considerando l’attuale crisi ambientale che comporta anche la perdita di fertilità dei suoli e il costante rischio di erosione. Lo scopo non è quello di guardare all’agricoltura di ieri con nostalgia, ma è dare valore e conservare quello che resta, trovare nuove soluzioni adatte alle condizioni di produzione più attuali e restituire al paesaggio rurale una lettura non solo estetica e bozzettistica, ma in grado di raccontare la relazione tra l’uomo, l’ambiente e l’agricoltura.
Crisi e nuove idee nel secolo dei Lumi
La realizzazione dei terrazzamenti sorretti da muretti a secco o da terrapieni, che ha consentito ai popoli di stabilirsi e coltivare le pendici delle colline e delle montagne, è una tecnica antichissima. L’idea di modellare i versanti delle colline rendendoli stabili, regolare i movimenti dell’acqua verso valle e di preservare la fertilità dei suoli, invece, è molto più recente e deriva da una situazione di crisi molto simile a quella attuale.
La nascita e la diffusione delle sistemazioni idraulico-agrarie risale al XVIII secolo e ha la sua culla nella Toscana illuminista del Granducato di Lorena, anche se progressi simili nel governo del territorio avvennero con tempi e modalità simili anche in molte altre regioni italiane ed europee. Tuttavia, le vicende toscane racchiudono tutti gli elementi che permettono di capire i motivi profondi della nascita delle sistemazioni idraulico-agrarie. A raccontarne la storia è Daniele Vergari, agronomo, storico dell’agricoltura e collaboratore della storica Accademia dei Georgofili di Firenze.
«Nel 1700 la Toscana era un mondo in crisi, molto cristallizzato, con forti difficoltà nei commerci, scarse produzioni, tecniche agricole obsolete consolidate nel tempo e pochissima innovazione. Al tempo stesso però, con la fine della piccola era glaciale [un periodo in cui si registrò un sensibile abbassamento della temperatura media terrestre. n.d.a.], con la relativa mancanza di conflitti e un ridotta diffusione delle grandi epidemie, ci fu un periodo di forte espansione demografica. Per sfamare una popolazione cittadina e rurale in crescita divenne necessario rendere i terreni più produttivi e coltivarne di nuovi» racconta Vergari.
La nascita delle sistemazioni idraulico-agrarie
E così, mentre le aree umide di pianura cominciarono a essere bonificate, ci si rivolse anche alla collina, precedentemente occupata dal bosco o da forme di agricoltura di intensità e dimensioni ridotte e i cui suoli in Toscana presentavano composizione, origine e stabilità molto diverse.
«Negli anni tra il 1761 e il 1767 si verificò, nel Mediterraneo – e in Toscana – una situazione climatica avversa, dovuta a una rara configurazione meteorologica sulla penisola iberica, che nelle nostre regioni fece letteralmente “impazzire” il tempo, portando grandi gelate, periodi di siccità, malattie delle piante e annate molto piovose, con le conseguenti carestie».
Nelle annate più piovose, è proprio sulle superfici collinari da poco “aggredite” dalle lavorazioni e dalla coltivazione che cominciarono a formarsi frane e calanchi, in grado di portarsi via in pochi anni interi poderi. Il problema diventarono quindi l’erosione e le sue conseguenze, con l’innalzamento del letto dei fiumi a valle per il trasporto dei detriti e del suolo, la necessità di alzare argini per evitare le inondazioni, ma anche la perdita di fertilità e produttività delle coltivazioni perché, ieri come oggi, a essere perso è lo strato più fertile del suolo: pochi centimetri per la cui formazione occorrono centinaia di anni.
«Quegli anni di rottura rappresentarono un momento molto importante nella storia della scienza», spiega Vergari. «Per alcuni studiosi, come Alberto Oliva che ne scrisse negli anni ’30 del Novecento, la seconda metà del Settecento è un momento eccezionale per il progresso della tecnica agricola, perché di fronte alla necessità di risolvere un problema, nacquero le sistemazioni idraulico-agrarie, che regolano il deflusso dell’acqua nei versanti con lo scopo di rallentarne la velocità ed evitare che questa trasporti via suolo utile».
LEGGI ANCHE: Che effetti avrà il cambiamento climatico sul vino italiano?
Giovanni Battista Landeschi, il parroco che piantava gli alberi (e scavava i fossi)
In Toscana il pioniere nella realizzazione e la descrizione delle sistemazioni idraulico-agrarie fu Giovanni Battista Landeschi.
Landeschi fu un parroco di campagna di San Miniato. «Quando entrò in possesso del podere del suo beneficio parrocchiale, nel 1757, lo trovò completamente devastato dai fenomeni erosivi», racconta Daniele Vergari. «Ebbe una sorta di illuminazione e capì che per sistemare quelle colline doveva regolare l’acqua senza lasciarla correre. Quindi iniziò a fare dei piani orizzontali più fertili e produttivi, realizzando un sistema di arginelli, ciglioni inerbiti che seguivano le linee di livello e le fossette che convogliavano le acque verso degli acquidocci o canali di raccolta più grandi, interrotti da quelle che definiva “pescaiole”: barriere filtranti in vimini che servivano a raccogliere la frazione solida trasportata e riposizionarla sui campi.
In pochi anni, seguendo questo sistema, il beneficio parrocchiale di Landeschi, da misero e povero, rifiorì e potè sostenere due famiglie e le spese della parrocchia. Quando Landeschi lasciò il podere circa 25 anni dopo, c’erano oltre 4000 piante tra alberi da frutto, viti e olivi».
Le sistemazioni idraulico-agrarie descritte da Cosimo Ridolfi nel 1828 sul Giornale Agrario Toscano. Da sinistra in alto: rittochino, cavalcapoggio, girapoggio e ciglioni. Foto di Daniele Vergari, riproduzione privata.
La trasformazione della campagna
Nella diffusione di questi nuovi modelli di gestione del suolo e del territorio un ruolo fondamentale la ebbe, fino dalla sua nascita nel 1753, l’Accademia dei Georgofili. Qui ebbe luogo un dibattito vivace che, con un approccio sempre più scientifico, proseguì più o meno per tutto l’Ottocento e fino alla metà del Novecento e che portò alla nascita di sistemazioni sempre più avanzate ed efficienti, adatte a suoli di natura diversa.
I protagonisti furono i nuovi agronomi e tra essi spiccò Cosimo Ridolfi, considerato uno dei padri dell’agronomia italiana. Nella sua fattoria di Meleto, Ridolfi realizzò le colmate di monte e la sistemazione a spina, una fattoria sperimentale e una scuola di istruzione agraria. Tra il 1827 e il 1828 pubblicò sul Giornale Agrario Toscano una serie di articoli dove descrisse le principali forme di sistemazione collinare: la spina, il girapoggio, il cavalcapoggio, il rittochino, i ciglioni.
«Fu un grande successo di tecnica. La campagna toscana divenne un enorme cantiere dove si sperimentarono nuove sistemazioni e assetti delle pendici in un processo che durò fino agli anni ’50 del Novecento» aggiunge Vergari.
La nuova agricoltura
All’improvviso tutto cambiò: a partire dalla metà del Novecento la mezzadria scomparve e fu così che le campagne persero forza lavoro e capacità di svolgere lavori complessi e molto faticosi. Le zone rurali meno produttive si spopolarono, le persone si spostarono in città e molte aree un tempo coltivate videro il ritorno del bosco. Giunsero i trattori e le macchine agricole, le produzioni incrementarono e si imposero nuovi sistemi e tecniche agricole, come l’uso dei fertilizzanti chimici.
La “nuova” agricoltura richiedeva superfici grandi e facilmente accessibili. Le vecchie sistemazioni, i terrazzi e i ciglioni cedettero il passo a superfici e versanti con pendenze uniformi, facilmente transitabili e sulle quali le colture si dispongono a rittochino, secondo la massima pendenza e trasversalmente alle linee di livello. Fu così che la produttività aumentò, i costi di coltivazione e produzione diminuirono, ma si ripresentarono i fenomeni erosivi, i calanchi e le frane.
Muretti a secco, patrimonio immateriale dell’umanità
In alcune aree, in funzione delle caratteristiche del terreno e della presenza di pietre di dimensioni adatte, i terrazzamenti erano o sono ancora sostenuti dai muretti a secco, strutture di origine antichissima realizzati con competenze e tecniche a cavallo tra l’agricoltura e l’edilizia.
Oltre a rappresentare un elemento del paesaggio legato alla tradizione, un muretto a secco assolve a una serie importante di funzioni. È anche in grado di fornire quelli che si definiscono servizi ecosistemici. Le sue pietre difendono dall’erosione lo strato più superficiale del suolo, ricco di piccoli artropodi e microorganismi che ne determinano la fertilità, regolano il deflusso delle acque superficiali, rappresentano un serbatoio di biodiversità vegetale e animale e costituiscono – come fanno anche le siepi, i boschi e i filari che interrompono la monocoltura – un prezioso corridoio ecologico. È per questo che dal 2018 l’arte dei muretti a secco è entrata a far parte dei patrimoni immateriali dell’Umanità dell’UNESCO.
Tuttavia, realizzare un muretto non è semplice; ripristinarne uno già esistente lo è ancora meno. È un lavoro che richiede competenze ormai rare per disporre le pietre di diverse dimensioni, riempire i vuoti con il pietrame più piccolo, realizzare le testate d’angolo e dare le pendenze corrette. E per di più ha una necessità elevatissima di manutenzione.
Un terreno terrazzato rappresenta un valore e, allo stesso tempo, comporta dei costi. L’agricoltore ne beneficia per quanto riguarda i frutti della terra, così come ne beneficia la collettività. Dall’altra parte, la questione su chi debba sostenere i costi necessari per la conservazione di questa risorsa ambientale e paesaggistica è ancora in buona parte irrisolta.
Case e terrazzamenti in Valfontanabuona, provincia di Genova, gennaio 2023. Fotografia di Alfonso Lucifredi.
Segni nel paesaggio
Recuperare le vecchie sistemazioni idraulico-agrarie per raccontarle come segno del paesaggio, della cultura e della storia dell’agricoltura, senza trasformare le campagne in un museo, è possibile. Ma non è facile. A San Miniato, per esempio, l’Associazione Giovanni Battista Landeschi – della quale Daniele Vergari è presidente – ha individuato quello che restava dei ciglioni realizzati dal parroco settecentesco. La datazione è stata possibile grazie alla presenza dei resti di qualche olivo centenario.
L’associazione, insieme a un gruppo di residenti e agricoltori, li ha trovati, ripuliti dalle sterpaglie e ne ha fatto un caso di divulgazione delle sistemazioni. «Lo scopo è stato di tipo didattico, per fare rete sul territorio nella conservazione di un bene comune, partecipare a eventi e portare in visita i gruppi di persone, cogliendo l’occasione per spiegare insieme alle sistemazioni concetti come la fertilità e la biodiversità» racconta Vergari.
Un patrimonio da tutelare
A pochi chilometri di distanza la Fattoria di Meleto che fu di Cosimo Ridolfi conserva la testimonianza importante delle sistemazioni a spina. «Tenere vive queste testimonianze è difficile e non banale. Vanno proposte e promosse come tasselli di un percorso culturale diffuso sul territorio, dove si vedano delle permanenze e si proponga una lettura dei segni che spiegano il paesaggio. Ripercorrerli ha una valenza didattica unica e sarebbe molto bello poter arrivare ad avere una mappa, un percorso sul territorio che porti il pubblico a vivere quest’esperienza».
È questo il sogno di Daniele Vergari. «Il paesaggio rurale è un elemento collettivo di identità territoriale» spiega «ma occorre anche far capire che è una realtà in continua evoluzione. Estetizzarlo o cristallizzarlo in una visione troppo ingessata è molto pericoloso: non si deve portare a pensare nemmeno che il buon paesaggio sia quello del 1700. Le sistemazioni sono importanti, non perché sono la testimonianza di un passato agricolo che oggi è superato, ma perché sono opere ed eredità di identità culturale e territoriale.
E perché, in più, svolgono delle funzioni ecologiche importanti, apportando dei benefici che possono rappresentare un grimaldello per aprire la porta a una riflessione più ampia sul rapporto tra paesaggio, agricoltura, mondo rurale e lavoro. Alle sistemazioni dobbiamo riconoscere un valore identitario che la storia non le ha mai dato. Per esempio, se si fa una ricerca sulle etichette dei vini toscani – che spesso riportano degli elementi del paesaggio – si possono trovare vigne, case coloniche, ruderi, castelli, strade. Ma non troverete mai traccia di un terrazzamento».