È una mattina di maggio del 2097, il sole accecante rimbalza sulla tavola piatta del mare Adriatico, all’altezza di quello che un tempo era il Delta del Po, mentre le operazioni di trasferimento della popolazione costiera verso l’interno proseguono senza sosta.
Negli ultimi due anni, da nord a sud, centinaia di migliaia di persone hanno perso tutto: con l’innalzamento del livello del mare, le loro abitazioni sono state invase gradualmente dall’acqua. Qualcuno ha provato a resistere, costruendo case in legno sopraelevate, ma nel giro di poco tempo anche i più ostinati si sono dovuti rassegnare a quella che di fatto è l’inesorabile scomparsa non solo di centri abitati, ma di secoli e secoli di civiltà costiere. Luoghi, abitudini, lavori che per centinaia di anni hanno accompagnato e fornito sostentamento agli esseri umani insediati sulla costa, stanno scomparendo, invasi dall’acqua del mare, che a poco a poco colonizza tutto quello che incontra.
L’avevano detto gli esperti, nelle loro proiezioni dei primi anni 2000, «Entro la fine del secolo l’innalzamento del mare lungo le coste italiane è stimato tra 0,94 e 1,035 metri, nella peggiore delle ipotesi tra 1,31 metri e 1,45 metri». Queste previsioni si basavano su una combinazione di concause, tra cui l’innalzamento del livello dell’acqua causato dallo scioglimento dei ghiacci, il cambiamento climatico, la subsidenza alla quale molte zone costiere mediterranee vanno incontro, e infine la storm surge, ossia la coesistenza di bassa pressione, onde e vento, che in particolari condizioni determina un aumento del livello del mare rispetto al litorale di circa 1 metro. A pensarci oggi, era prevedibile che, senza interventi, questa tendenza avrebbe portato in pochi decenni seri problemi.
Ma frenati dall’inerzia dello sviluppo, dall’incapacità di cooperare e superare i singoli interessi e da una clamorosa serie di scellerate campagne politiche negazioniste di disinformazione orientata, per anni tutti sono rimasti a guardare, come se quelle proiezioni, quegli scenari, fossero qualcosa di puramente teorico.
Qualcuno ha provato a resistere, costruendo case in legno sopraelevate, ma nel giro di poco tempo anche i più ostinati si sono dovuti rassegnare a quella che di fatto è l’inesorabile scomparsa non solo di centri abitati, ma di secoli e secoli di civiltà costiere.
E così ci troviamo oggi a dover fronteggiare un’emergenza in fase avanzata, in ritardo su tutti i fronti. In alcune zone d’Italia, come quella compresa tra la laguna di Venezia e il Delta del Po, un vero e proprio esodo ha visto centinaia di migliaia di persone spostarsi dalla costa verso l’entroterra. Le grandi città dell’interno sono cresciute rapidamente, inglobando i piccoli paesi, in quello che ora sembra un enorme, unico quartiere residenziale.
In molti ricordano perfettamente com’era la costa, appena pochi anni fa. Tutto è avvenuto in maniera non improvvisa, ma nemmeno così lenta, sicuramente inesorabile, innescando una serie di problemi che hanno scoperchiato a loro volta altre questioni.
Scelte poco lungimiranti hanno ancorato l’Italia (e il mondo) a una dipendenza economica dalle fonti fossili che prima ci ha schiacciato sotto il peso della CO2 e gli altri gas serra, poi ci ha lasciati completamente inermi, una civiltà che dipende sostanzialmente dalla capacità di produrre energia, che non è più in grado di produrre energia. I combustibili sono diventati in breve tempo introvabili, oggi il loro prezzo è salito alle stelle, al punto che pochissimi possono permettersi di produrre energia.
Ciò ha innescato un effetto a cascata su tutti i settori essenziali per la sopravvivenza umana. La produzione di cibo è diventata complicatissima, per via del costo dell’energia e della carenza di acqua dolce che per 9 mesi all’anno riguarda quasi tutte le città italiane.
La maggior parte delle persone non può permettersi cibo di qualità, per questo ormai più del 90% della produzione di cibo è intensiva.
Quello che viviamo oggi è il peggior futuro possibile, sembra paradossale che noi, gli animali più bravi a fare previsioni di lungo termine, non siamo stati in grado di organizzarci e correggere una rotta che era sbagliata. E lo sapevamo.
Immaginare il nostro futuro
La capacità di prevedere il futuro è una complicata combinazione di interpretazione dei dati, creatività e abilità nel mettere insieme quello che già sappiamo e quello che invece non possiamo sapere. Oggi disponiamo di una grande mole di informazioni, che ci permette di quantificare il nostro impatto sul pianeta e di prevedere quali saranno le conseguenze nel breve e lungo termine. Nonostante questo però, la sensazione è che non si stia facendo abbastanza, come ribadito dall’IPCC nella più recente valutazione degli impatti: dai fallimentari accordi per il clima su scala globale, fino alle più banali abitudini di consumo che riguardano i singoli.
La comunità scientifica sta cercando da decenni di sensibilizzare, informare, rendere l’umanità più consapevole di quello che sta succedendo. Eppure, per una serie di dinamiche socio-politiche, sembra che non siamo in grado di ascoltare.
Un buon modo per afferrare il messaggio è provare a immaginarsi il futuro; non un futuro generico su larga scala, ma situazioni locali, vicine a quello che è il nostro vissuto attuale.
Da questi presupposti nasce l’idea di Scenari 2100, una ricognizione di RADAR sui possibili scenari che gli scienziati prospettano per quattro settori sui quali l’essere umano sta esercitando una pressione fortissima. Quattro ambiti di cui per forza dovremo prenderci cura, perché fondamentali per la sopravvivenza della nostra specie: clima, biodiversità, cibo ed energia. Una serie di racconti basati su dati scientifici ma anche su speculazioni di fantasia, ognuno dei quali con due scenari, che dipendono da come – e da quanto in fretta – saremo in grado di mitigare e ridurre i nostri impatti ambientali. Un lavoro che non va inteso come vera e propria previsione, ma piuttosto come esercizio per provare a familiarizzare con un concetto così sfuggente e bizzarro quanto inevitabile: il futuro.
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