La voce dei Sami, indigeni europei, alla COP26

La parlamentare sami Maja Kristine Jåma lotta contro il più grande parco eolico onshore d'Europa. Non per bloccare la transizione verde, ma per garantire che sia equa e non vìoli i diritti degli indigeni, già svantaggiati.

4 minuti | 10 Novembre 2021

A soli 28 anni, Maja Kristine Jåma è un membro del Consiglio direttivo del nuovo Parlamento Sami in Norvegia, costituito lo scorso 20 ottobre. Pochi giorni prima, la Corte suprema ha stabilito una vittoria storica per la sua comunità: secondo la sentenza, due centrali eoliche stanno danneggiando i pastori di renne nella penisola di Fosen. I giudici hanno così dichiarato nulle le licenze rilasciate dal ministero per costruire e fare funzionare le 151 turbine, parte del più grande parco eolico onshore d’Europa, che ora potrebbero essere abbattute.

Dietro questa decisione c’è la protezione di una pratica culturale tradizionale, prevista dalle Nazioni Unite. «La cultura Sami è strettamente collegata all’allevamento delle renne», spiega Jåma. «I pastori seguono la mandria ovunque. Le renne si muovono e il loro movimento dipende dal tempo, dal vento e dalla stagione. La renna sa dove andare per trovare il miglior pascolo. I pastori di renne Sami vivono all’aperto tutto l’anno e il loro lavoro è a stretto contatto con la terra e la natura».

Secondo quanto ha potuto osservare Jåma, il riscaldamento globale si manifesta prevalentemente in inverni sempre più instabili e cambiamenti nel meteo sempre più repentini. «L’anno scorso, abbiamo avuto una crisi con i pascoli perché improvvisamente ha iniziato a piovere invece di nevicare, dopo di che la pioggia si è congelata in ghiaccio. Ciò ha reso molto difficile l’accesso al cibo per le renne. Questo è successo in molte altre comunità di pastori di renne in tutta la zona di Sápmi, ed è stato tragico e molte renne sono morte».

Come sentenziato dalla Corte suprema, l’allevamento delle renne è anche strettamente legato alla cultura, alla lingua e alle tradizioni Sami. L’avversione per gli impianti eolici è allora una contraddizione soltanto apparente. «Non è facile descrivere la questione, ma quando si parla di cambiamenti climatici è piuttosto interessante».

«La cosa migliore da fare è preservare la terra e le aree che non hanno (ancora) subito alcuna invasione».

«Siamo preoccupati che il cambiamento climatico sia una minaccia per la nostra cultura, ma anche per le stesse misure che dovrebbero combatterlo. In tutta Sápmi [la nazione dei Sami, che comprenderebbe territori in diversi Paesi scandinavi, n.d.r.] ci sono molti casi di allevatori di renne che stanno perdendo le loro terre in nome dell’industria verde e del cambiamento verde, compresa l’energia eolica. Il Parlamento Sami ha detto no all’ulteriore costruzione di impianti di energia eolica nei pascoli delle renne Sámi perché le conseguenze negative sono enormi. Non possiamo distruggere la nostra terra e la natura come azione contro il cambiamento climatico. La cosa migliore da fare è preservare la terra e le aree che non hanno (ancora) subito alcuna invasione».

Per questo motivo, Jåma ha iniziato a impegnarsi politicamente. 

«Se i diritti delle popolazioni indigene e la pratica culturale vengono violati come conseguenza dello sviluppo dell’energia eolica verde e le terre degli allevatori di renne vengono occupate, è una forma di colonizzazione “verde”. Sfortunatamente, questo non è l’unico luogo in cui accade. Per me è importante affrontare il fatto che l’azione climatica non può essere usata come una scusa per occupare la terra tradizionale delle popolazioni indigene, per violare i diritti delle popolazioni indigene e per minacciare il futuro delle comunità».

In passato la terra Sápmi è già stata oggetto di sfruttamento per le risorse energetiche, e quello su cui i Sami non sono d’accordo è il mancato parere dei legittimi proprietari: «I numerosi sviluppi dell’energia idroelettrica hanno finito per sommergere gran parte della nostra terra», dice Jåma. «Tutti gli sviluppi del settore previsti nelle zone indigene dovrebbero tenere conto dei portatori di diritti e le comunità interessate», spiega. «Per costruire sui nostri territori è necessario ottenere il cosiddetto consenso previo, libero, e informato (FPIC) delle comunità locali, un diritto specifico dei popoli indigeni riconosciuto nella dichiarazione delle Nazioni Unite (UNDRIP) e che consente loro di dare o negare il consenso a un progetto che potrebbe riguardare loro o i loro territori».

«L’azione climatica non può essere usata come una scusa per occupare la terra tradizionale delle popolazioni indigene, per violare i diritti delle popolazioni indigene e per minacciare il futuro delle comunità».

Ora Jåma è a COP26 per dare voce ai Sami. «Nella mia comunità ci sono uomini e donne leader», dice. In netta contrapposizione ai rappresentanti dei governi nazionali, infatti, sono molte le donne con un ruolo chiave. A cominciare dalla presidente del parlamento Sami, Silje Karine Muotka.

Come tutti i popoli indigeni del mondo, anche quelli europei sono particolarmente minacciati dal riscaldamento globale, sono i più efficaci responsabili della salvaguardia dell’ecosistema in cui vivono, eppure restano senza un posto al tavolo dei negoziati. Contando anche i Sami di Svezia, Finlandia e Russia, si tratta di appena 100,000 persone. E sono tutte in pericolo, sottolinea Jåma. «L’Artico sta già sperimentando il cambiamento climatico», dice. «Lì il riscaldamento globale avviene tre volte più velocemente rispetto al resto del mondo».

«Spero che il mondo sia pronto per compiere alcune azioni reali e iniziare a prendere sul serio questo problema. I cambiamenti climatici avvengono mentre parliamo ed è importante che i cambiamenti inizino ora. La nostra cultura e il nostro futuro dipendono da questo».

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  • Emanuela Barbiroglio

    Emanuela Barbiroglio, giornalista italiana a Bruxelles, si occupa soprattutto di ambiente, diritti umani e politica economica europea. Attualmente lavora come freelancer per ANSA, Forbes e Voxeurop (tra gli altri). Ha vissuto a Berlino, dove ha completato la laurea in Storia e Antropologia, e a Londra, dove ha studiato giornalismo scientifico e lavorato come data journalist per Property Week.

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