Il ritorno del lupo in Italia

La storia del lupo appenninico, che dopo aver sfiorato l’estinzione è tornato a ricolonizzare l’Italia. E con cui ora noi umani dobbiamo capire come convivere.

10 minuti | 17 Febbraio 2023

Illustrazioni di Daniela Germani

Ci sono storie che hanno il sapore della vittoria. Storie che se ci guardi dentro vedi il buio dell’estinzione e la tenacia della rinascita. Con la rubrica “Per un pelo”, la naturalista e giornalista scientifica Francesca Buoninconti ci racconterà alcune delle più incredibili storie di animali scampati all’estinzione grazie a visionari progetti di conservazione.

Questa è la storia di un ritorno. Il ritorno di un predatore il cui legame con gli esseri umani affonda le radici nella notte dei tempi e si perde nelle leggende e nel mito. Una storia che avrà un futuro solo nel segno della convivenza. Questa è la storia del lupo appenninico (Canis lupus italicus), che dopo aver sfiorato l’estinzione tra gli anni Sessanta e Settanta, è tornato a ri-colonizzare lo stivale sulle sue zampe con oltre 3300 esemplari, aiutato da leggi di tutela, campagne di sensibilizzazione e dalla trasformazione del paesaggio.

 

Il lupo appenninico: il lupo d’Italia

Nella grotta Ciota Ciara, nel parco del Monte Fenera, in Valsesia, i resti dei Neandertal si mescolano ai reperti animali: cervi, cinghiali, camosci macellati per la carne. Ma anche orsi delle caverne e lupi: questi ultimi scuoiati con strumenti in quarzo per la loro pelliccia. Già 300.000 anni fa, nel Paleolitico medio, nostro cugino aveva incontrato il lupo. 

A dirla tutta il lupo scorrazza da 400.000 anni nella nostra penisola. Ha assistito alla scomparsa dei Neanderthal dallo stivale, all’ascesa dei sapiens, e all’alternarsi delle dominazioni e delle civiltà delle genti italiche che hanno fatto la storia del nostro paese, dagli Etruschi ai Cartaginesi, dai Fenici ai Romani, passando per i Greci. E nel tempo si è differenziato dal lupo grigio europeo.

Oggi in Italia infatti vive il lupo appenninico (Canis lupus italicus), una sottospecie del lupo grigio europeo, più piccola e con una colorazione e una morfologia cranica diverse. Lungo un metro e mezzo, e alto al garrese 50-70 centimetri, il lupo appenninico ha una dentizione meno robusta e canini meno ricurvi del lupo europeo, mentre gli arti anteriori sono pennellati di una stria scura. Il primo a riconoscere le sue peculiarità fu lo zoologo Giuseppe Altobello nel 1921, ma ci sono voluti decenni prima di avere le prove genetiche che attestano a tutti gli effetti che il lupo che vive in Italia è una sottospecie. Un endemismo (come lo chiamano gli zoologi), peraltro molto elusivo, che circa cinquant’anni fa ha rischiato di scomparire. Ma oggi è tornato a riconquistare buona parte del suo areale storico, in modo del tutto naturale.

 

Due storie che si mescolano

Nonostante la sua elusività, con lo stesso passo svelto e furtivo che contraddistingue il suo incedere, il lupo appenninico ha mescolato la sua storia con la nostra. E gli uomini delle varie epoche lo hanno eletto prima a simbolo di forza, di dedizione e maternità – come la lupa che secondo il mito avrebbe allattato Romolo e Remo – e poi di bestia feroce, domabile solo per intercessione divina da un santo come Francesco d’Assisi. 

Ed è proprio dal Medioevo – quando la pastorizia cominciò a crescere d’importanza – che i rapporti tra l’uomo e il lupo sono diventati via via più ostili. Ma se per qualche secolo i tentativi di sterminare il lupo rimasero tutto sommato poco efficaci, le cose cominciarono a cambiare nell’Ottocento, per poi mettersi davvero male per il predatore italiano dopo la prima guerra mondiale.

All’inizio del secolo scorso, il lupo appenninico era ormai un nemico da combattere con ogni mezzo, come testimoniano le foto del tempo. Simbolica è l’immagine del primo direttore del neonato Parco nazionale d’Abruzzo, Carlo Paolucci, che nel novembre del 1924 posava accanto a tre lupi uccisi con bocconi alla stricnina e appesi come trofei. Con il regio decreto del 5 giugno 1939, sulle nuove norme per la protezione della selvaggina e l’esercizio della caccia, il lupo veniva ufficialmente considerato “specie nociva”. All’articolo 4 si leggeva: “agli effetti della presente legge sono considerati nocivi: fra i mammiferi: il lupo, la volpe, la faina, la puzzola, la lontra, il gatto selvatico; fra gli uccelli: le aquile, i nibbi, l’astore, lo sparviero e il gufo reale”. Ma assieme a questi, avevano la stessa nomea anche la martora e la donnola, di fatto tutti i rapaci diurni e notturni, aironi e marangoni, una serie di corvidi e anche i gatti domestici che avessero l’ardire di vagabondare a più di 300 metri dall’abitato. Sempre per il regio decreto, come specificato in articolo 25, il lupo poteva essere sterminato con ogni mezzo: lacci, tagliole, trappole, bocconi avvelenati, cacciandolo anche di notte o uccidendone i cuccioli.

Nei primi anni Settanta, in tutto il Paese si stimavano solo un centinaio di lupi, sopravvissuti lungo l’Appennino dalla Calabria al Casentino.

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Il ritorno naturale del lupo appenninico

Oggi ci sono lupi tra le faggete degli Appennini, dalla Calabria alla Pianura Padana. Ci sono lupi anche sulle Alpi, sulle spiagge della Maremma e giù nel “tacco”, fino in Salento. Il lupo appenninico è tornato a popolare il suo areale storico, e lo ha fatto sulle sue zampe, aiutato da nuove leggi di tutela, da campagne di sensibilizzazione e dalle trasformazioni del paesaggio.

La storia del ritorno del lupo comincia il 23 luglio del 1971: con l’approvazione del cosiddetto “decreto Natali”, vengono vietati i bocconi avvelenati e il lupo appenninico viene eliminato dall’elenco delle specie nocive, non è più cacciabile. Cinque anni dopo, nel 1976, diventa specie integralmente protetta grazie al decreto ministeriale Marcora. Sulla carta non è più un nemico da abbattere a vista, ma si sa: l’uomo nella sua storia evolutiva ha perso il pelo, ma non il vizio. E le leggi, da sole non bastano a salvare la pelle del predatore.

Parallelamente, infatti, il Parco Nazionale d’Abruzzo e il WWF cominciano una campagna di sensibilizzazione che riesce a far breccia nella stragrande maggioranza della popolazione. Il sentimento verso il lupo appenninico comincia a cambiare. Negli anni verranno altre leggi, la posizione del lupo appenninico come specie protetta si consolida sempre più, così come il sentimento della popolazione generale verso questo predatore. 

Ma la vera ripresa del lupo si è compiuta grazie a due fattori: «in primis, il progressivo aumento delle aree forestali e del patrimonio boschivo, e in seconda battuta l’aumento esponenziale delle prede predilette dal lupo, gli ungulati» spiega Piero Genovesi, responsabile del servizio per il coordinamento della fauna selvatica dell’Ispra. «L’abbandono delle campagne e dei terreni agricoli negli ultimi decenni ha innescato una trasformazione del paesaggio in Italia che di fatto ha fornito nuovamente al lupo il suo habitat ideale. E parallelamente ha favorito la proliferazione di ungulati, come cinghiali e caprioli. Per esempio il capriolo, che negli anni ’70 e ’80 era molto localizzato, è aumentato del 350%: oggi si contano oltre 450.000 esemplari nella penisola. Mentre il cinghiale, preda per eccellenza del lupo, dai primi anni Duemila a oggi è aumentato del 400%, arrivando a superare il milione e mezzo di esemplari» continua Genovesi. «Insomma il lupo appenninico è tornato a conquistare il suo areale storico, seguendo le sue prede tra i nuovi boschi italiani, aiutato da un quadro normativo che lo tutela e da una nuova sensibilità della popolazione. Il suo è un ritorno del tutto naturale, sebbene qualcuno dica il contrario».

 

Tra miti e leggende

Veder spuntare un lupo all’orizzonte, in territori dove magari è stato assente per decenni, ha riacceso antiche paure, fatto nascere leggende e fake news. «Quando ero ero ancora un dottorando, negli anni ’90» racconta Genovesi «il lupo ricomparve nel senese, dopo secoli di essenza. Forse quegli esemplari erano arrivati dal Casentino, ma la loro presenza si fece subito notare. È comprensibile che, vedendolo dall’oggi al domani, qualcuno abbia pensato che potesse essere stato rilasciato lì, ma a differenza di altre specie italiane che sono state reintrodotte – come stambecchi e cervi – per il lupo non si è mai fatto nulla del genere!».

«Non sono stati attuati progetti di reintroduzione, né sono stati mai stati fatti rilasci o liberazioni» prosegue Genovesi. «Al massimo, quello che è stato fatto è prelevare lupi che per esempio erano vittime di un investimento, curarli e donargli di nuovo la libertà al termine della riabilitazione. Ma una volta terminate le cure, la liberazione è avvenuta sempre nella stessa zona dove sono stati recuperati».

«La verità è che il lupo percorre centinaia di chilometri in dispersione: lo abbiamo visto monitorando i lupi con i GPS o riconoscendo geneticamente gli individui dalle loro fatte (le cacche) in giro per l’Italia. Per esempio il lupo MI5 nel 2004 fu investito sulla superstrada di Parma, una volta curato e liberato nella stessa zona, abbiamo visto però che ha intrapreso un vero e proprio viaggio: è sceso in Toscana, per poi risalire a nord e attraversare la Liguria – da sempre considerata un collo di bottiglia invalicabile – fino ad arrivare in Francia, dov’è morto. I lupi in dispersione macinano centinaia di chilometri, ecco perché in 50 anni, grazie alle leggi di tutela e a un ambiente favorevole, il lupo è tornato relativamente velocemente a riappropriarsi del suo areale storico» conclude Genovesi.

 

Il monitoraggio nazionale del lupo

C’è chi ha sempre detto che sono troppi, e chi invece ha temuto per anni che fossero troppo pochi. Di fatto è dagli anni Cinquanta che la presenza di questo carnivoro sul nostro territorio ruota intorno a una sola domanda: quanti lupi ci sono in Italia? E sebbene il lupo sia stato sempre molto studiato, fino a qualche anno fa, abbiamo dovuto accontentarci si una stima grossolana, che non teneva conto della differente distribuzione e della diversa numerosità dei branchi nel territorio italiano. Oggi però possiamo contare sui risultati del primo monitoraggio nazionale del lupo, da poco presentati

«Nel 2015 erano due le stime a scala nazionale: una parlava di 1269-1800 lupi, e l’altra 1070-2470 esemplari» specifica Genovesi. «Ma erano stime poco accurate, perché si basavano su progetti a scala regionale o di parchi, in cui si cercava di capire il numero di branchi e di individui per branco su quel territorio e poi si spalmava questo dato sull’intero areale potenziale della specie». 

Nell’ottobre del 2020, invece, è partito il primo monitoraggio nazionale del lupo, condotto dall’Ispra. Ben 3.000 persone, tra enti, parchi, associazioni nazionali e regionali, 504 reparti dei carabinieri e nove università, hanno lavorato alla raccolta dati percorrendo 85.000 km di transetti prestabiliti, in tutt’Italia, dalle Alpi alla Calabria. Aiutandosi anche con le fototrappole, i ricercatori hanno trovato e raccolto i segni di presenza del lupo: impronte e tracce, carcasse di ungulati e oltre 16.000 escrementi su cui sono state fatte le analisi genetiche.

E i numeri oggi sono solidi: lungo il nostro stivale trotterellano oltre 3.300 lupi. In media 2.400 esemplari (tra i 2.020 e i 2.645, secondo le stime) abitano la penisola, mentre circa 950 esemplari si muovono nelle regioni alpine (qui la stima indica tra gli 822 e i 1.099 esemplari). La nuova stima permette inoltre di conoscere meglio la numerosità dei branchi, capire meglio la loro distribuzione, ed «è la prima stima solida e accurata a livello nazionale, ottenuta grazie a un monitoraggio eseguito in contemporanea su tutto il territorio nazionale, con una raccolta dati sincronizzata e un protocollo comune» chiarisce Genovesi.

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Vecchi problemi, nuovi equilibri

Il ritorno del lupo nelle zone da cui era scomparso per decenni o secoli pone una grande sfida: instaurare una pacifica convivenza. 

«Innanzitutto, per gli allevamenti, bisogna prevenire i danni e rispettare le leggi comunitarie: munirsi di apposite recinzioni per il bestiame e di cani da pastore certificati» sottolinea Genovesi. «Anche perché le compensazioni economiche, laddove accertate e previste, spesso non bastano a risarcire il danno avvenuto, e questo crea ulteriori attriti. Bisogna quindi lavorare su questo fronte, anche finanziando le misure di adeguamento agli standard richiesti. E poi, proprio perché oramai il lupo ha ricolonizzato ambienti dove non si vedeva più da secoli, anche in zone periurbane, va fatta una corretta comunicazione e informazione anche con i cittadini: in questi anni non sono mancati casi di lupi giovani, alimentati dall’uomo come fossero cani randagi, che poi hanno creato qualche problema. Mitigare queste situazioni conflittuali richiederà impegno da parte nostra e delle amministrazioni locali. La rete nazionale di operatori formati con il primo monitoraggio nazionale del lupo, servirà anche a questo».

 

Una minaccia invisibile per il lupo appenninico

Ma oltre ai conflitti con l’uomo, c’è un altro problema che minaccia la sopravvivenza del lupo: l’ibridazione con i cani, un’ombra che le analisi genetiche hanno purtroppo confermato. «Con le analisi genetiche siamo riusciti a capire in molti casi se a lasciare lì quel ricordino era stato un maschio o una femmina, a capire il rango sociale dell’esemplare e le relazioni parentali con altri individui, ma abbiamo trovato anche le fatte di alcuni ibridi cane-lupo» racconta Genovesi. 

«Oltre l’11% dei campioni raccolti aveva segni di ibridazione recenti: non è abbastanza per capire quanto e come l’ibridazione sia diffusa sul territorio italiano. Ma è sufficiente per dire che l’incrocio tra lupo e cane – che dà prole fertile – è un problema che ci preoccupa molto. L’ibridazione è una minaccia subdola perché non visibile: non incide sui numeri, ma sul patrimonio genetico. E rischia infatti di compromettere il patrimonio genetico unico del lupo, e di alterare quegli adattamenti fisiologici e comportamentali – frutto di una lunga evoluzione – che hanno permesso al lupo di sopravvivere in tempi difficili. In sostanza potrebbe ridurre la probabilità di sopravvivenza del lupo» conclude Genovesi.

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  • Daniela Germani

    Daniela Germani è geologa specializzata in paleontologia e illustratrice appassionata di tematiche naturalistiche e ambientali.
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    Francesca Buoninconti è naturalista e giornalista scientifica. È nella redazione di Radio3 Scienza, il quotidiano scientifico di Radio3 Rai, e racconta la zoologia ai ragazzi su Rai Gulp per La Banda dei FuoriClasse. Scrive di scienza, natura e clima per varie testate, tra cui “Il Bo Live” e “Il Tascabile”. È autrice di “Senza confini. Le straordinarie storie degli animali migratori” (2019) e “Senti chi parla. Cosa si dicono gli animali” (2021), entrambi pubblicati da Codice Edizioni.

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