Il disastro ambientale provocato dai PFAS in Veneto è unico nel suo genere, per la sua estensione e per il numero di individui interessati dalla contaminazione. L’evento è così grave che in molti si sarebbero aspettati una intensa protesta da parte della popolazione residente. Allo stesso tempo, tutti auspicavano un’azione rapida e decisa da parte degli organi di governo, sia regionali che nazionali. Tutto ciò, invece, non è successo. Dopo la pubblicazione nel 2013 dello studio IRSE-CNR – che confermò oltre ogni ragionevole dubbio la massiccia presenza di PFAS nelle acque di decine di comuni del Veneto – le autorità si sono mosse con una certa timidezza. Secondo numerose testimonianze, uno dei primi errori è stato quello di non avviare una campagna informativa capillare e costante nel tempo. Molte persone, infatti, hanno saputo del disastro a distanza di anni, e soltanto grazie a parenti o conoscenti.
Michela Piccoli è parte del collettivo delle Mamme No PFAS: un gruppo di donne, ragazze e madri che da anni svolge un’azione fondamentale sul territorio. Vive a Lonigo, in provincia di Vicenza, nel fulcro dell’area rossa. Racconta: «Nel 2013 ero infermiera. Mia cognata, che lavorava al Servizio Prevenzione Igiene e Sicurezza negli Ambienti (SPISAL) mi telefonò per dirmi che aveva sentito che c’era un problema nell’acqua. Dopo qualche giorno la incontrai e mi disse che c’era stato un grande scompiglio, ma che l’allarme era rientrato. Da allora, per anni, non ne ho saputo più niente. Poi, nel 2017, ricevemmo l’invito per portare i ragazzini a fare gli esami del sangue per ricercare i PFAS. Le istituzioni dicevano che non era altro che un eccesso di zelo e io ci credevo. A febbraio 2018 abbiamo fatto gli esami e i risultati erano del tutto fuori dai parametri. Mia figlia, in particolare, aveva il valore di un particolare PFAS che era altissimo. Mi sono collegata a Internet, sicura che ci fosse una campagna informativa in atto. Non ce n’era traccia. Fu allora che iniziai a parlare con altre madri che risiedono o risiedevano in queste aree».
Michela Piccoli, 49 anni, infermiera all’Hospice di Arzignano e attivista. Michela ha fondato, assieme ad altre mamme, il movimento Mamme No PFAS. Nel 2017, a seguito di una richiesta di screening da parte della USL della Regione Veneto indirizzata ai ragazzi di 16/17 anni per rilevare la presenza di PFOA e PFAS, Michela ha scoperto che sua figlia, Maria, aveva livelli di oltre 100 nanogrammi per litro, rispetto ai parametri di riferimento da 0,5 a 8 nanogrammi per litro. Novembre 2022. Lonigo, Vicenza.
PFAS, salute e famiglie
Poco studiate prima del 2000 e praticamente sconosciute al pubblico, le sostanze per- e polifluoroalchiliche (PFAS) sono onnipresenti nei prodotti che usiamo e consumiamo. Classificate come tossiche, bioaccumulabili e persistenti, i PFAS non si degradano nell’ambiente e costituiscono una delle più gravi contaminazioni a livello mondiale. È ormai noto che l’esposizione a PFAS possa comportare alcune gravi conseguenze per la salute, come cancro, infertilità, malattie della tiroide, ipercolesterolemia. È stato stimato che queste sostanze gravino ogni anno sui sistemi sanitari europei per un importo compreso tra 52 e 84 miliardi di euro.
«Più cercavo informazioni sugli effetti sulla salute dei PFAS e più guardavo in maniera diversa a tutti gli eventi che avevano colpito la mia famiglia negli anni», ricorda Michela Piccoli, «il mio medico di base un giorno mi disse che veniva sgridato perché prescriveva troppe statine [farmaci utilizzati per abbassare i livelli di grassi nel sangue n.d.a.], ed era come se in paese chiunque avesse il colesterolo alto. Insieme alle altre madri andammo a parlare con il sindaco di Lonigo, il quale ci diceva che si stava informando a sua volta, ma che non ci saremmo dovute allarmare perché l’acqua era sicura. Ma allora gli esami del sangue a 85.000 persone venivano fatti per niente? Impossibile».
Un dipendente di Acque del Chiampo, la società che gestisce il servizio idrico integrato per 10 comuni della Valle del Chiampo, in provincia di Vicenza, preleva dal pozzo l’acqua di falda ad 80 metri di profondità, per poi mandarla in laboratorio interno per rilevare la presenza di PFAS. Acque del Chiampo gestisce 904 chilometri di rete idrica e 716 chilometri di fognatura, prelevando l’acqua di acquedotto e restituendola pulita all’ambiente dopo il trattamento negli impianti di depurazione. Febbraio 2023. Arzignano, Vicenza.
«Il nostro obiettivo iniziale era che nelle scuole mettessero i boccioni d’acqua purificata. Poco dopo, però, abbiamo capito che avremmo dovuto parlare con chiunque», spiega Michela Piccoli, «comuni, USL, ASL; cercavamo di aprire un dialogo con ogni realtà. Volevamo incontrare Luca Zaia, il Presidente del Veneto, che era impegnato in un tour elettorale in regione. Siamo riuscite a beccarlo nel corso della sua tappa nel paese di Brendola, lo abbiamo circondato e gli abbiamo consegnato una bottiglia con l’acqua presa dallo scarico ARICA, con tanto di fiocco. È da quel momento che siamo riuscite ad aprire una sorta di canale di dialogo con la Regione».
Rosso, arancione, giallo e verde
Il dialogo tra istituzioni regionali e popolazione è stato problematico fin dal primo momento. La risposta delle autorità, infatti, viene spesso descritta come raffazzonata, talvolta al limite dell’improvvisazione. Per fare un esempio, la suddivisione in zone di diverso colore si basa su parametri contestati. La cosiddetta Area Rossa è quella servita dalla rete di acquedotti contaminata, ed è a sua volta suddivisa in Area Rossa A e Area Rossa B sulla base dei dati ambientali nelle acque sotterranee e superficiali. La cittadinanza di queste due aree è stata inclusa nel Piano di sorveglianza sanitaria.
L’Area Arancione, invece, è stata dapprima esclusa dal Piano, poiché non interessata dalla contaminazione della rete di acquedotti. Altre fonti di approvvigionamento non sono state tenute in considerazione. Tuttavia c’è chi, residente in zona arancione o gialla, ha trovato il modo di sottoporsi agli esami e constatare come i livelli di PFAS nel sangue fossero comunque molto alti.
«Io e la mia famiglia viviamo nell’Area Arancione e l’acqua dei nostri rubinetti non è contaminata. Nella nostra casa, però, c’è un pozzo da cui prendevamo l’acqua per irrigare l’orto. L’abbiamo fatta analizzare e abbiamo scoperto che conteneva addirittura più PFAS che in alcuni punti di prelievo dell’Area Rossa. Noi mangiavamo le verdure irrigate da quell’acqua», a raccontarlo è Elisabetta Donadello, che abita a ovest di Vicenza, a poca distanza dal comune di Creazzo. Da anni lotta con tenacia per chiedere risposte e interventi che la Regione stenta ancora oggi a dare.
Elisabetta Donadello, 48 anni, coltivatrice e attivista. Dopo che nell’acqua del suo pozzo è stata rilevata una concentrazione di 18.000 nanogrammi per litro di PFAS, Elisabetta ha sempre usato acqua piovana, stoccata in serbatoi, per l’irrigazione del suo orto. Novembre 2022. Vicenza.
«Sembrava impossibile fare analizzare le verdure coltivate a casa nostra», prosegue Elisabetta Donadello, «ARPAV non svolge queste indagini per i singoli cittadini. I laboratori privati costavano troppo. Nel 2020 ho fatto analizzare l’acqua del pozzo a mie spese e ho scoperto che c’erano 13.000 ng/l [nanogrammi per litro] di PFAS. Di PFOA ce n’erano 9000 ng/l. Ma non c’erano limiti ai PFAS per l’uso irriguo. La svolta è stata nel 2022, quando un gruppo di giornalisti tedeschi stava realizzando un servizio sul disastro ambientale in Veneto e hanno svolto alcuni prelievi di sangue. I miei figli avevano i valori più alti di tutti. Con la gravidanza e l’allattamento la madre trasmette i PFAS ai bambini. Quindi io ho avvelenato prima mia figlia e poi mio figlio. Volevo sottopormi anche io alle analisi del sangue, ma la Regione si prendeva il lusso di non rispondermi».
Elena Sartori, 31 anni, mentre allatta la sua seconda figlia. Pur consapevole del rischio di trasmettere PFAS alla figlia attraverso l’allattamento, Elena continua a farlo perché i suoi valori di PFAS nel sangue sono ancora normali. Il tema dell’allattamento al seno è molto discusso in Veneto. Uno studio pubblicato su Environmental Science & Technology ha trovato queste sostanze in tutti i campioni di latte materno analizzati. Un’indagine della Regione Veneto nella zona inquinata ha documentato problemi nello sviluppo del feto e complicazioni durante la gravidanza. Considerando che l’allattamento esclusivo al seno è raccomandato per i primi mesi di vita dei neonati, l’idea che la loro unica fonte di cibo sia contaminata da queste sostanze e gli effetti che potrebbero avere sul loro sviluppo è preoccupante. Novembre 2022. Sarego, Vicenza.
Una Regione in fuga?
La Regione Veneto ha sottovalutato la tenacia di chi si batte per il diritto alla salute e all’informazione per sé e per i propri cari. Il 15 settembre 2022, Elisabetta Donadello si è presentata – sola e con un cartellone di protesta – davanti al Tribunale di Vicenza dove si stava svolgendo una delle udienze del processo ai vertici della ex Miteni di Trissino. Nelle settimane e nei mesi successivi si è succeduto un “botta e risposta” tra gruppi di attivismo e istituzioni. Tuttavia, questo dialogo è avvenuto (e continua ad avvenire) a forza di appuntamenti rimandati, lettere senza risposta, incontri inconcludenti. È soltanto quando la reputazione delle istituzioni rischia di essere scalfita in pubblico che, d’improvviso, qualcosa succede.
Elisabetta Donadello ricorda che «per mesi chiedevamo un incontro per far sì che anche chi non vive nell’Area Rossa potesse accedere agli esami. Era ormai la fine di dicembre 2022: rimandavano, non rispondevano. Poco dopo il 6 gennaio 2023, io e Michela Piccoli abbiamo scritto un comunicato stampa dal titolo “La Regione è in fuga” e l’abbiamo mandato a tutti i giornali. L’11 gennaio, la Regione ha pubblicato a sua volta un comunicato stampa in cui affermava che già il 30 dicembre 2022 avevano emesso la delibera per permettere ai cittadini dell’Area Arancione di fare le analisi a pagamento. Ma sappiamo che fino al 9 gennaio in Regione nessuno era a conoscenza di questa delibera».
Il comunicato stampa della Regione illustra, tra le altre cose, le azioni intraprese negli anni per intervenire sulla contaminazione da PFAS e monitorare la popolazione. Nel testo, si spiega perché l’Area Arancione non sia stata subito inclusa nel piano di sorveglianza. «L’acqua destinata al consumo umano, principale fattore di esposizione, proviene da fonti diverse», si dichiara, «nell’Area Rossa è stata distribuita acqua con PFAS, essendo attinta ai pozzi contaminati di Almisano, mentre nell’Area Arancione è stata distribuita acqua proveniente da pozzi non contaminati da PFAS».
Valori di PFOA nel sangue di una persona che lavorava nell’impianto chimico Miteni. I risultati degli esami svolti dall’azienda, dall’aprile 2000 al maggio 2010, sono espressi in parti per milione (ppm) mentre lo screening della Regione Veneto indica i valori in nanogrammi per millilitro (ng/ml).
I risultati dell’aprile 2000 e del maggio 2001 sono identici (45,500 ppm, pari a 45.500 ng/ml) poiché era il massimo valore di PFOA rilevabile con le tecnologie disponibili all’epoca. Nel 2008, questa persona ha smesso di lavorare nell’impianto. A distanza di 13 anni, il PFOA è ancora presente nel sangue, in quantità di 3.440 ng/ml, pari a 3,440 ppm.
Un’offerta da 90 euro
Si puntualizza anche che «la Regione del Veneto ha comunque messo in atto delle precise misure di sanità pubblica, per ridurre l’eventuale rischio derivante da un uso a scopo potabile di pozzi privati da parte della cittadinanza. […] È stata prevista, inoltre, per l’Area Arancione una valutazione del rischio relativamente all’esposizione alimentare, D.G.R. n. 1494 del 15 ottobre 2019, con conseguente eventuale, presa in carico della popolazione qualora dovessero emergere elementi di rischio espositivo di bioaccumulo».
Tuttavia le sostanze tenute in considerazione e i livelli limite sono oggetto di critiche. Secondo quanto evidenziato più volte da cittadini e cittadine, i criteri sono da rivedere e la suddivisione del territorio in varie zone si basa su parametri che vengono contestati. A ciò si aggiunge il fatto che le modalità con cui la cittadinanza dell’Area Arancione può accedere agli esami del sangue sono state definite “ridicole” oppure “offensive”.
I comuni in Area Arancione sono 12 e le analisi del sangue sono riservate alla popolazione d’età compresa tra i 9 e i 65 anni d’età. Il costo dell’esame è di 90 euro, un prezzo descritto come “calmierato”. Ma non tutta la popolazione può permettersi una spesa del genere, soprattutto se si tratta di famiglie numerose. Il risultato è stato che pochissime persone si sono sottoposte alle analisi. D’altronde, puntualizza Elisabetta Donadello, «c’è un laboratorio in Germania che esegue lo stesso esame per 80 euro e senza limiti d’età».
Eugenio Rigodanzo, 61 anni, allevatore di vacche da latte, da tempo in prima linea nella lotta ai PFAS, mentre raccoglie il mais tritato per nutrire le sue mucche. Nel 2017, Eugenio ha denunciato l’abbandono nel campo adiacente alla sua azienda agricola di enormi sacchi di rifiuti provenienti dai filtri a carboni attivi utilizzati per filtrare l’acqua contaminata da PFAS. Di conseguenza, la Cooperativa per cui lavorava ha dovuto interrompere la produzione di latte, poiché temeva che potesse essere contaminato, e risarcire l’allevatore per la mancata produzione. Eugenio ha dovuto richiedere a sue spese l’analisi dell’acqua del pozzo privato da cui attinge l’acqua necessaria per la sua stalla. Le analisi hanno rivelato una presenza di PFAS ben al di sotto della soglia di rischio, nonostante Lonigo sia in piena zona rossa, e così la produzione è ripartita. Febbraio 2023. Lonigo, Vicenza.
Il tubo di un agricoltore che si collega al fiume Retrone per riempire la cisterna e innaffiare le serre e i prodotti del suo campo, che poi rivende al mercato rionale. Il fiume Retrone è il secondo fiume più inquinato della zona, con oltre 5000 nanogrammi/litro di PFAS nell’acqua. Novembre 2022. Creazzo, Vicenza.
PFAS, omertà, fortuna e identità
Ancora oggi molte persone che abitano nei luoghi contaminati non si sono interessate alla vicenda. Al contrario della velocità con cui si diffondono le sostanze per- e polifluoroalchiliche, la presa di coscienza del pubblico avviene con grande lentezza. È complicato rintracciare e spiegare i motivi di un tale disinteresse, soprattutto se si pensa che, nel dicembre 2021, a Vicenza è addirittura arrivata una delegazione guidata da Marcos Orellana, special rapporteur sulle sostanze tossiche e i diritti umani dell’Alto Commissariato della Nazioni Unite. Orellana, in quell’occasione, ha constatato la carenza di informazioni e la sorprendente lentezza con cui le istituzioni stanno agendo. In Italia chiunque ha sentito nominare il caso dell’ILVA di Taranto, moltissime persone sanno cosa sia la “Terra dei fuochi”. Non si può affermare la stessa cosa per quanto riguarda il disastro dei PFAS in Veneto. Perché?
«La reazione al disastro provocato dall’ex Miteni è la cartina di tornasole dell’omertà del territorio. Di fronte al finto benessere e ai soldi si può tacere ogni cosa. La nostra è un’omertà molto sottile e bisognerebbe capirne le radici antropologiche nei nostri stessi retaggi» racconta Alberto Peruffo, scrittore, editore e leader del movimento No PFAS, «la spinta identitaria di queste parti è a suo modo legata all’omertà. Quando sono arrivate le lettere per gli screening del sangue, molti hanno preferito girarsi dall’altra parte. È una sorta di devianza che si può constatare anche nel titolo dell’ultimo libro di Luca Zaia, il presidente della Regione: “I pessimisti non fanno fortuna”. È così che si evita di esporsi, per evitare di essere emarginati sia economicamente che socialmente».
Alberto Peruffo, 55 anni, nella sua libreria “La casa di Giovanni”, luogo di attivismo e di lavoro. Alberto è un attivista e scalatore. Come militante politico territorialista, è impegnato in prima linea su diverse questioni di ecologia politica, giustizia sociale e ambientale, nei territori in cui vive. Dal 2016 al 2021 fino all’inizio del processo PFAS, è stato uno dei coordinatori del movimento NO PFAS contro i crimini ambientali, confluito nel progetto culturale PFAS Land. Montecchio Maggiore, Vicenza.
«L’agire delle istituzioni, e di chi ancora oggi sminuisce il problema, è volgare. La volgarità assume molte forme. La si può vedere quando la Regione dichiara che “offre” gli esami del sangue, come se fosse un dono dall’alto e non un dovere sanitario. La volgarità è nelle lettere senza risposta, nella ridicolizzazione dell’attivismo, nei documenti rilasciati malvolentieri, nelle promesse mai mantenute», riflette Peruffo, «qua si è interrotto quel clima di speranza dato dal vivere in un posto salubre. Io vedo la tristezza negli occhi delle persone mentre coetanei e amici si ammalano e muoiono. Si è quasi portati ad augurarsi che questo territorio, contraddistinto da una economia marcia, imploda per poi rigenerarsi».
Torrente Onte. Sovizzo, Vicenza.
Leggi l’inchiesta di RADAR sui PFAS
Questa inchiesta è parte di The Forever Pollution Project, un’indagine crossborder a cui hanno partecipato 18 redazioni da tutta Europa. Un gruppo che oltre a RADAR Magazine include Le Monde (Francia), Süddeutsche Zeitung, NDR e WDR (Germania), The Investigative Desk e NRC (Paesi Bassi) e Le Scienze (Italia), e a cui si sono aggiunti Datadista (Spagna), Knack (Belgio), Deník Referendum (Repubblica Ceca), Politiken (Danimarca), Yle (Finlandia), Reporters United (Grecia), Latvijas Radio (Lettonia), SRF Schweizer Radio und Fernsehen (Svizzera), Watershed e The Guardian (Regno Unito).