Il petrello delle Bermuda: storia di una resurrezione

Il petrello delle bermuda è un uccello marino che per 330 anni è stato ritenuto estinto. Questa è la sua storia - e quella degli scienziati che lo hanno salvato dall’estinzione.

9 minuti | 21 Giugno 2022

Illustrazioni di Daniela Germani

Ci sono storie che hanno il sapore della vittoria. Storie che se ci guardi dentro vedi il buio dell’estinzione e la tenacia della rinascita. Con la rubrica “Per un pelo”, la naturalista e giornalista scientifica Francesca Buoninconti ci racconta alcune delle più incredibili storie di animali scampati all’estinzione grazie a visionari progetti di conservazione.

In questa seconda puntata andiamo alle Bermuda, dall’altra parte dell’Atlantico, alla scoperta di un uccello marino ritenuto estinto per 330 anni e poi “risorto dalle sue ceneri” come una fenice. È la storia del petrello delle Bermuda e degli scienziati che lo hanno tirato fuori dal baratro dell’estinzione.

L’isola dei diavoli

Quando nel 1609 i primi coloni arrivarono su Grande Bermuda, non dormivano sonni tranquilli: l’isola di notte sembrava animarsi. Voci strazianti e lamentose si levavano al tramonto: sembrava che anime in pena vagassero per l’isola. A generare quei lamenti era invece il petrello delle Bermuda (Pterodroma cahow). Un uccello marino dal piumaggio bianco e grigio ardesia scuro, con un’apertura alare di circa 90 centimetri. È un parente di albatros, berte e uccelli delle tempeste, che nidifica scavando dei cunicoli nel terreno. Scoperto l’arcano, Grande Bermuda venne soprannominata “l’isola dei diavoli” e i petrelli vennero battezzati cahow, dal suono del loro verso

L’arrivo dei coloni europei, però – come spesso è accaduto ad altri animali in diverse zone del mondo – decretò l’inizio della fine per il petrello delle Bermuda. La deforestazione dei boschi di cedro delle Bermuda e l’introduzione di piantagioni di mais e tabacco, distrussero parte dell’habitat naturale. Nuovi predatori – ratti, gatti e cani – fecero incetta di pulli, uova e adulti. E infine, per una grave carestia, anche i coloni rivolsero i loro appetiti a questi uccelli facilmente catturabili e alle loro uova.

Una specie Lazzaro

Da quel momento, per 330 anni, nessuno sentì più il canto dei petrelli levarsi alle Bermuda. Finché nei primi del ’900, due episodi in cui venne trovato un petrello morto riaccesero una flebile speranza. Una prima spedizione mirata, nel 1951, trovò 7 coppie e una seconda nel 1961 che censì 18 coppie e 8 pulcini. Niente in confronto al mezzo milione di petrelli che abitavano le isole prima dell’arrivo dei coloni, ma un numero sufficiente per affermare che il petrello delle Bermuda non si era estinto. Era diventato ufficialmente una specie Lazzaro, riemersa dalle ceneri.

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I primi passi per salvare il petrello delle Bermuda

Si arriva così ai primi anni Sessanta, quando l’ornitologo e naturalista David Wingate, presente nella spedizione del 1951, dà inizio al primo programma di conservazione del petrello delle Bermuda. Nello stesso periodo, Nonsuch Island diventa riserva integrale.

Wingate si trova davanti a una grossa sfida: la vegetazione di un tempo è scomparsa e i petrelli non hanno suolo sufficiente dove nidificare. Gli isolotti sono oramai solo nuda roccia calcarea. Wingate così lavora su due fronti: fornisce nidi artificiali ai petrelli e scopre perché una buona percentuale di petrelli non arriva all’età adulta. 

Il principale sospettato è il DDT (insetticida comune negli anni ‘50-‘60) riscontrato in concentrazioni preoccupanti (circa 6,44 ppm) nelle uova e nei piccoli petrelli morti. Fortunatamente con la messa al bando del DDT, avvenuta nel 1972, le cose migliorano. E negli anni ’90 si arrivano a contare 40 coppie riproduttive di petrelli, anche se il passaggio dell’uragano Gert che allaga i nidi vanifica gli sforzi riproduttivi del 1999.

Una nuova era per il petrello delle Bermuda

Oggi alle Bermuda vivono circa 155 coppie di petrelli, distribuite su 6 dei circa 300 isolotti corallini che compongono l’arcipelago. E ci sono due nuove colonie. Un grande traguardo raggiunto negli ultimi vent’anni grazie a interventi mirati ed efficaci. Nel 2000, alla guida del Cohow Recovery Project, si ha un cambio di passo. A David Wingate succede Jeremy Madeiros, che intraprende un lavoro di cesello per ricreare l’ambiente e le condizioni adatte alla sopravvivenza del petrello delle Bermuda. 

«Solo con Jeremy si è cominciato a inanellare i petrelli, applicando un anello alla zampa per identificarli individualmente e registrare dei record di longevità. Con lui ha preso il via anche un controllo sistematico dei predatori, in particolare dei ratti. E ora Nonsuch Island è praticamente “ratto-free”.» racconta a RADAR Magazine Letizia Campioni, ricercatrice del Marine and Environmental Sciences Centre (MARE) dell’Università Ispa di Lisbona, che dal 2019 lavora sulla conservazione del petrello, a stretto contatto con Jeremy Madeiros.

Ricreare un habitat

Oggi una delle sfide più grandi è ridurre la perdita dell’habitat di nidificazione. «Si sta tentando di ricreare l’ambiente originario delle Bermuda, quello che i coloni hanno trovato più di 300 anni fa. Jeremy e il suo team si stanno impegnando per eliminare le piante alloctone portate lì nel corso dei secoli, e piantumare invece specie autoctone adattate a un clima ventoso, umido e mutevole.

Ricreare i boschi che c’erano un tempo, però, è davvero arduo: solo l’isola di Nonsuch oggi è alberata e solo lì resta del suolo dove i petrelli possono ancora scavare i loro nidi-galleria. La speranza è di ripristinare l’ambiente in modo che i petrelli possano tornare a scavare i propri nidi pur avendo a disposizione quelli artificiali, resistenti a tempeste e uragani».

Parallelamente, il team di Madeiros lavora anche per far espandere le colonie di petrelli, traslocando in luoghi più sicuri i pulcini nati sugli isolotti oggi considerati fragili, a rischio di inondazione se arriva un ciclone o soggetti all’erosione del mare e del vento.

«I petrelli, come moltissimi procellariformi, sono fedeli al sito di nascita, cioè tornano a fare il nido lì dove sono nati. Sullo stesso isolotto calcareo» spiega Letizia Campioni. «Ma se l’isolotto scompare, eroso e sommerso dal mare o allagato da tempeste tropicali sempre più frequenti a causa del climate change, i petrelli non avranno chance. Per questo prima che i piccoli si involino, trasferiamo i pulli in nuovi nidi costruiti su Nonsuch Island, più riparata dalle intemperie. Qui vengono alimentati fino all’involo: così, se memorizzano il nido d’involo, dopo 4-5 anni torneranno a Nonsuch per riprodursi. E la cosa sta funzionando: sono già sorte due nuove colonie che stanno crescendo!» rivela entusiasta Letizia Campioni.

LEGGI ANCHE: La prima puntata di Per un pelo, la rubrica di Francesca Buoninconti

Occupanti abusivi

Il petrello delle Bermuda però deve vedersela anche con un occupante abusivo dei nidi: il fetonte codabianca (Phaethon lepturus catsbyii), un uccello marino più aggressivo e con un becco più robusto, che nidifica alle Bermuda con 2500-3000 coppie. «A fine febbraio alle Bermuda cominciano ad arrivare anche i fetonti per nidificare, e i petrelli rischiano grosso: hanno già deposto le uova e i primi pulli sono già nati, ma i fetonti usurpano i loro nidi. Possono distruggere le uova, uccidere i pulli e scacciare dal nido artificiale i petrelli adulti» racconta Campioni. 

«Per risolvere questo problema di competizione per i siti di nidificazione, da parecchi anni all’ingresso dei nidi è stata aggiunta una tavoletta di legno sagomata che rende il passaggio più stretto. Così i petrelli possono entrare e uscire liberamente, mentre i fetonti restano alla porta. E per limitare ulteriormente la competizione, ai fetonti vengono forniti dei nidi diversi, detti igloo, più adatti alle loro esigenze».

Petrello delle Bermuda: non ancora fuori pericolo

Oggi più del 95% della popolazione di petrello delle Bermuda si riproduce nei nidi artificiali forniti dal progetto di conservazione. E la specie è ancora considerata in pericolo di estinzione dalla IUCN. Tra isolotti calcarei che scompaiono per l’erosione costiera, uragani più frequenti che rischiano di allagare i nidi, la competizione con i fetonti e un ambiente non più ospitale, la strada per dichiararli fuori pericolo è ancora in salita. Senza considerare che sulla loro biologia e sul loro comportamento si sa ancora poco. Sono proprio questi gli aspetti su cui si concentrano le ricerche di Letizia Campioni, che visita i ‘suoi’ petrelli delle Bermuda 2 volte l’anno. 

«Dal 2019 studio i loro movimenti in mare con dei GPS, per capire dove si alimentano e seguire le loro migrazioni. Così ho scoperto che si alimentano a più di 2.000 km dalle isole. Mentre analizzando escrementi e rigurgiti abbiamo capito che i petrelli sono generalisti: mangiano un po’ di tutto, soprattutto specie mesopelagiche, anche bioluminescenti, che vivono a tra i 1.000 e i 200 metri di profondità» spiega Campioni.

«Probabilmente aspettano il momento in cui queste specie risalgono più in superficie nelle loro migrazioni quotidiane nella colonna d’acqua. Ma grazie ai GPS abbiamo notato che alcuni petrelli si spingono fino alle acque territoriali canadesi e in aree dove potrebbero essere attratti da fonti luminose: luci artificiali e impianti di estrazione del petrolio. Per questo, nell’ultimo anno, abbiamo iniziato a collaborare con ECCC Canada (Environment and Climate Change Canada) per inserire il petrello delle Bermuda nell’elenco delle specie protette in Canada».

Un enigma da risolvere

Per salvare il petrello delle Bermuda, però, c’è ancora un enigma da sciogliere: negli ultimi 10 anni, dal 27 al 39% delle uova di petrelli non si sono schiuse. E bisogna capire il perché.

«Tra i sospettati ci sono anche dei contaminanti» dice Campioni. «I livelli di DDT che ho riscontrato nel sangue dei petrelli adulti sono inferiori di mille volte a quelli trovati da Wingate negli anni ’60. Ma i tessuti analizzati non sono gli stessi, perciò questo risultato è solo indicativo. E non possiamo escludere che, oltre al DDT, la specie sia stata esposta anche ad altri inquinanti. Le mie analisi si concentrano infatti sui POP (gli inquinanti organici persistenti ndr.), incluse varie famiglie come i PCB (i policlorobifenili ndr.). E sebbene i livelli di PCB nel sangue siano relativamente bassi, comparabili a quelli di altre specie di uccelli che sono in salute, anche qui non possiamo escludere effetti sub-letali dovuti a una bassa esposizione a questi inquinanti, ripetuta nel tempo. Serviranno ulteriori studi» conclude Letizia Campioni, più decisa che mai a portare fuori dal baratro dell’estinzione il petrello delle Bermuda.

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    Francesca Buoninconti è naturalista e giornalista scientifica. È nella redazione di Radio3 Scienza, il quotidiano scientifico di Radio3 Rai, e racconta la zoologia ai ragazzi su Rai Gulp per La Banda dei FuoriClasse. Scrive di scienza, natura e clima per varie testate, tra cui “Il Bo Live” e “Il Tascabile”. È autrice di “Senza confini. Le straordinarie storie degli animali migratori” (2019) e “Senti chi parla. Cosa si dicono gli animali” (2021), entrambi pubblicati da Codice Edizioni.

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