Perché il MOSE non può salvare per sempre Venezia e la sua laguna

Da quando è entrato in funzione, il MOSE ha salvato più volte Venezia dall'acqua alta. Ma il modo in cui è progettato, guardando al passato, lo rende inadeguato agli scenari climatici futuri.

4 minuti | 25 Novembre 2022

OPINIONI

Innanzitutto, una premessa: solamente i critici più ingenui potevano pensare che il MOSE non avrebbe funzionato, nel senso che non si sarebbe mai riusciti a tirare su le 78 paratoie incernierate nei cassoni di alloggiamento posati sul fondo delle tre bocche di porto, separando temporaneamente mare e laguna e proteggendo, in quel lasso di tempo, Venezia dall’acqua alta. È già avvenuto una ventina di volte da quando il MOSE è entrato in funzione per davvero, dopo qualche prova, il 3 ottobre 2020. 

Piuttosto, i critici più avveduti hanno sempre creduto che dopo un trentennio di piani, tentativi, progetti, lavori, dopo una montagna di soldi spesi, al di là della corruttela, dell’arbitrio pieno sulle spese da parte di controllori che controllavano sé stessi e il proprio operato, del pesante condizionamento di politica, economia, cultura, università, della città nel suo insieme almeno il risultato di sollevare quelle paratoie per un certo periodo sarebbe infine stato conseguito. E infatti ci siamo.

 

La marea del 22 novembre

Martedì 22 novembre ce le siamo godute anche noi quelle ore senza acqua alta, consapevoli dell’impatto che avrebbe potuto avere sulla città una marea di 173 centimetri, cioè uno degli eventi maggiori di sempre. Anche perché sappiamo bene cosa abbiano comportato i ritardi nel realizzare difese adeguate. 

È stata proprio la scelta di un progetto macchinoso e azzardato compiuta con una violenta forzatura politica e formale, ignorando, con molte critiche del mondo scientifico, ogni serio confronto con progetti alternativi a produrre continui stop and go, scoperte ricorrenti di guasti, inconvenienti, imprevisti, necessità di aggiustamenti e revisioni, continui rinvii di collaudi, lievitazioni della spesa – anche al netto della corruzione – incertezze e ripartenze che hanno lasciato Venezia alla mercé delle acque alte quando da almeno vent’anni sarebbe stato possibile difenderla con altre soluzioni. Non è ammissibile, come qualcuno prova, dare un colpo di spugna ai decenni e ai disastri che abbiamo alle spalle. Perciò, soprattutto ora che il MOSE c’è e funziona, è il caso di ricordare l’ABC di questa opera.

Il MOSE, un’opera che non guarda al futuro

Lettera A: il MOSE non deve salvare unicamente la città di Venezia ma anche la sua laguna. Chiusure troppo frequenti colpiscono al cuore l’ecosistema lagunare, che, due volte al giorno, rinnova il suo metabolismo vitale attraverso lo scambio d’acqua con il mare. 

Lettera B: Il MOSE deve preservare l’economia del porto di Venezia. Chiusure troppo frequenti delle bocche di porto, con il MOSE in funzione e le paratoie sollevate, penalizzano duramente un pilastro dell’economia cittadina come gli operatori del porto e della pesca (con una marineria fra le maggiori in Italia). Purtroppo, ciò è già successo e continua ad accadere. 

Lettera C: il MOSE deve salvare la città di Venezia, la sua laguna e l’economia portuale nel drammatico quadro evolutivo del cambiamento climatico, che prevede l’aumento del volume e del livello medio del mare e della frequenza, portata e intensità delle maree. 

Un errore strategico di chi ha concepito il MOSE è stato quello di sottovalutare – considerando pressoché solo variabili locali – la febbre planetaria e la dinamica dei livelli e delle maree, al punto da stimare in appena 22 centimetri l’innalzamento del livello medio del mare atteso a fine secolo (“valore probabile cautelativo”). Nella migliore delle ipotesi, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) prevede piuttosto un innalzamento di 28-55 centimetri. Ma, nello scenario più pessimistico, esso potrebbe raggiungere anche i 63-101 centimetri. 

La sottostima delle conseguenze climatiche ha partorito un progetto pensato per entrare in azione appena quattro o cinque volte l’anno per qualche ora ogni volta. Tuttavia, se la frequenza e la portata delle maree si manifesteranno con ben altra intensità, come è già accaduto da quando il MOSE è entrato in funzione (pur non essendo ancora completato davvero), allora bisognerà fare i conti diversamente con i punti A e B.

LEGGI ANCHE: Piantare alberi non ci salverà, creare ecosistemi (forse) sì

Andare oltre il MOSE

Per come è stato pensato e realizzato, il MOSE non risolve in modo convincente nessuno di questi problemi. Nemmeno sanando i difetti emersi finora (sabbia, ruggine, oscillazioni, tenuta delle paratoie da verificare nel tempo) e pur avendo garantita si spera l’annuale montagna di soldi necessaria al suo funzionamento e alla sua manutenzione. In tale prospettiva, il temporaneo sollievo per la città asciutta non può essere, al meglio, che la proverbiale boccata d’ossigeno per riprendere energia e prepararsi ad affrontare ben altra tempesta. 

Insomma, mentre il MOSE entra in funzione e comincia a misurarsi con l’incalzante realtà del cambiamento climatico e ambientale, e mentre i suoi vecchi e nuovi sostenitori festeggiano, è già tempo di immaginare una diversa evoluzione sistemica dei meccanismi di salvaguardia fisica della città e della laguna (litorali e vecchie difese a mare comprese), che rilanci gli interventi articolati e diffusi e riprenda i piani di sollevamento del fondo lagunare e delle basi della città. 

Qui e ora vale invece la pena di ricordare, appunto, l’ABC della questione, invitando a guardare al drammatico contesto in cui già ci troviamo e che richiede di andare oltre il MOSE. Altro che compiacersene.

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  • Gianfranco Bettin

    Gianfranco Bettin è narratore, saggista e attivista ambientale. Attualmente è consigliere comunale a Venezia per la lista Verde Progressista. Il suo ultimo libro è “I tempi stanno cambiando. Clima, scienza, politica” (Edizioni e/o, 2022).

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