Le microplastiche in mare potrebbero favorire la diffusione di batteri resistenti agli antibiotici

L’evoluzione di microrganismi resistenti agli antibiotici sarà una delle minacce più pressanti per la salute globale nei prossimi anni. E sembra che le microplastiche disperse nell’ambiente favoriscano la loro diffusione nell’acqua di mare.

6 minuti | 24 Settembre 2021

Avere una cistite, un ascesso dentale o un’infezione anche più seria e non poter ricorrere a un antibiotico perché non se ne trova uno che funzioni. È lo spaventoso futuro, per non dire già il presente, che si prospetta se non riusciremo a frenare il crescente fenomeno della resistenza agli antibiotici, una delle minacce attuali più gravi per la salute umana e animale, o se non troveremo rapidamente valide soluzioni alternative a queste sostanze.

È ormai tristemente noto che l’uso massiccio e a volte ingiustificato di antibiotici – per la medicina umana ma soprattutto per l’allevamento intensivo di bestiame – accelera di molto la naturale resistenza dei batteri a questi trattamenti, rendendoli in molti casi inefficaci. Per decenni non si sono scoperti nuovi antibiotici e anche oggi la ricerca di nuove molecole antimicrobiche non è facile né ben finanziata. Comprendere meglio le cause di tale resistenza e i meccanismi che la favoriscono è quindi sempre più urgente.

Recentemente diversi gruppi di ricerca hanno messo in relazione questo problema con un’altra piaga del nostro tempo: l’inquinamento marino da microplastiche. Si definiscono così le particelle di plastica di dimensioni inferiori a 5 millimetri, provenienti dalla degradazione dei rifiuti in plastica o immesse nell’ambiente come tali perché presenti in alcuni prodotti, per esempio le microsfere e le paillettes dei cosmetici. A causa delle loro dimensioni ridotte, le microplastiche presenti in oceani, laghi e fiumi sono ingerite dagli animali acquatici, ma anche da noi, visto che sono presenti nell’acqua di rubinetto e in quella in bottiglia. Per questo, lo studio dei possibili effetti negativi sulla salute umana e animale delle microplastiche – e delle sostanze chimiche che rilasciano – è un’area di ricerca emergente.

Microplastiche e batteri

Ma non è tutto. Negli ultimi dieci anni, durante lo studio di campioni microbici presenti su microplastiche galleggianti nei mari e negli oceani, sono stati trovati batteri patogeni dei generi VibrioSalmonella e Legionella: molti di essi portavano i geni per la resistenza agli antibiotici. Normalmente questi batteri non sono presenti nelle acque marine perché non sopravvivono al pH dell’acqua, alla salinità o ad altri fattori ambientali. Oggi invece la loro presenza in alcune zone marine, soprattutto costiere, è decisamente superiore a quanto ci si potrebbe aspettare. È proprio qui, infatti, che vengono scaricate le acque reflue domestiche, industriali o agricole, e con loro anche una buona quantità di microplastiche. Alcuni studi preliminari suggeriscono che sia proprio l’associazione con le microplastiche la responsabile della longevità di questi batteri patogeni negli ambienti marini, della loro riproduzione e del loro trasporto in regioni anche molto lontane dal luogo in cui sono stati immessi in mare.

La biologa argentina Maria Belen Sathicq, ricercatrice all’IRSA (Istituto di Ricerca Sulle Acque) del CNR di Verbania, si è occupata di queste tematiche di ecologia microbica con il progetto di ricerca AENEAS svolto nel Mar Tirreno del nord. Le abbiamo fatto alcune domande.



Quali sono i principali pericoli del binomio microplastiche/batteri antibiotico-resistenti per la salute umana e ambientale?

«L’inquinamento da plastica ha un forte impatto sulle attività commerciali di pesca e acquacoltura. Infatti le microplastiche si accumulano nei tessuti degli animali marini e contaminano tutti i livelli della catena alimentare, arrivando fino al nostro piatto. Ma le microplastiche forniscono anche un substrato galleggiante che funge da vettore per il trasporto di alghe nocive, inquinanti organici e microrganismi potenzialmente patogeni. E come se non bastasse possono facilitare il trasferimento dei geni di resistenza agli antibiotici al microbiota degli animali acquatici che li ingeriscono o filtrano e di conseguenza ai consumatori di pesce e frutti di mare. Per esempio, nel 2018 è stato dimostrato che il microbiota delle persone che vivono o passano molto tempo vicino alle coste inquinate è spesso portatore di batteri resistenti agli antibiotici.

Per quanto riguarda l’ambiente, le microplastiche favoriscono anche la resistenza ad altri inquinanti, come i metalli pesanti, in alcuni microrganismi acquatici. Anche se lo studio dell’impatto delle microplastiche sulle comunità microbiche in ambiente naturale è solo agli inizi, esiste già qualche conferma proveniente da alcuni studi sperimentali».

Microplastiche al microscopio. Foto di Maria Belen Sathicq.

Che cos’è la “plastisfera” e come si forma questa nuova nicchia ecologica in cui, tra l’altro, proliferano batteri resistenti agli antibiotici?

«Batteri, alghe e funghi microscopici si attaccano alla superficie di vari substrati duri, naturali o artificiali, e creano il biofilm, una matrice adesiva e protettiva prodotta dai microrganismi stessi. Nel 2013 Zettler e colleghi hanno inventato il termine “plastisfera” per indicare le comunità microbiche scoperte sulle microplastiche raccolte nell’Atlantico del nord. Da allora diversi studi hanno dimostrato che la plastica può consentire a specifiche comunità microbiche di sopravvivere nell’acqua. Le microplastiche sono quindi una nuova nicchia ecologica che offre ai batteri maggiori possibilità di sopravvivenza nell’ambiente naturale e in cui lo scambio genetico tra individui o specie differenti è favorito dalla vicinanza fornita dal biofilm».

Il vostro progetto AENEAS si è concluso da poco, ad agosto 2021. Che risultati ha ottenuto?

«Il progetto, nato nel 2019 grazie al supporto del Fondo di Ricerca AXA, aveva come obiettivo lo studio dell’impatto delle microplastiche sulle comunità microbiche delle acque costiere del nord del Mediterraneo, con particolare attenzione alla potenziale selezione di resistenza agli antibiotici all’interno delle comunità esposte all’inquinamento da microplastiche.

In un primo momento abbiamo valutato la composizione della plastica e la diversità delle comunità microbiche sulle microplastiche in sei siti diversi sulla costa settentrionale del Mar Tirreno. Abbiamo scoperto che il polimero dominante era il polietilene e che la sua maggiore concentrazione non si trovava nei siti con il maggior impatto antropico (i porti) come ci si potrebbe aspettare, ma in aree meno frequentate come le riserve naturali. Le comunità batteriche presenti sulle microplastiche e nell’acqua sono molto diverse: i batteri del genere Vibrio potenzialmente patogeni e i geni di resistenza agli antibiotici (soprattutto alle tetracicline) sono più abbondanti sulle microplastiche rispetto all’acqua.

In un secondo momento abbiamo analizzato sperimentalmente il ruolo di diversi polimeri sui batteri, in particolare sui patogeni. Abbiamo studiato principalmente la gomma per pneumatici, un tipo di plastica con una composizione chimica molto complessa. In effetti questo materiale esercita una selezione e i batteri potenzialmente patogeni (ad esempio quelli dei generi PseudomonasAeromonasAcinetobacter) si trovano in concentrazioni più abbondanti su questo materiale.

Per finire abbiamo condotto un’indagine per comprendere il livello di percezione del rischio legato a questo tipo di inquinamento tra i cittadini che vivono sul litorale della nostra area di studio, coinvolgendo anche gli studenti delle scuole superiori. A nostra sorpresa, ci siamo resi conto che gli abitanti delle coste sono molto consapevoli dei problemi del loro territorio».

Quali sono gli aspetti più urgenti che dovrebbero essere affrontati nel tentativo di arginare la diffusione della resistenza agli antibiotici?

«C’è ancora molto da imparare sul ruolo delle microplastiche nella diffusione della resistenza agli antibiotici, soprattutto sulle particolarità di ciascun tipo di polimero e additivo. Tuttavia abbiamo già accumulato molte prove sperimentali che indicano come le microplastiche, a causa della loro durata di vita, fungano da serbatoio a lungo termine per la resistenza agli antibiotici. Un altro aspetto da valutare è il comportamento delle bioplastiche, cioè quelle non derivanti da petrolio, che può essere simile alle plastiche convenzionali rispetto alla formazione di comunità microbiche.

Il problema della resistenza agli antibiotici richiede un approccio multisettoriale, che veda la salute dell’uomo, degli animali e dell’ambiente come connessi e dipendenti l’uno dall’altro (un concetto conosciuto come “One Health”). Ci sono ancora molte questioni da risolvere: l’abuso di antibiotici nella medicina umana e veterinaria, l’uso eccessivo di questi farmaci negli allevamenti e l’efficacia degli impianti di trattamento delle acque reflue nella rimozione di inquinanti come le microplastiche».

La versione originale di questo articolo è stata pubblicata sulla rivista Polytechnique Insights (inglese – francese).

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  • Annalisa Plaitano

    Annalisa Plaitano è biologa e divulgatrice scientifica. Vive e lavora in Francia, dove scrive regolarmente per diversi giornali tra cui Cosinus e Polytechnique Insights. Insegna comunicazione scientifica in diverse università francesi, tra cui la Sorbona, ed è membro attivo dell’associazione Femmes & Science. In Italia collabora con Scienza per tutti, il sito dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, e l’Università di Camerino.
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