Il cosiddetto “Lazarus effect” nasce come termine della paleontologia per indicare un qualunque gruppo di organismi viventi (famiglie, generi, specie, e così via) che a un certo punto scompare dal registro fossile per poi riapparire inaspettatamente dopo molto tempo. Oggi si usa anche l’espressione “Lazarus species” per le specie ritenute estinte e riscoperte in epoca moderna.
Il più celebre animale protagonista di questo “effetto” è sicuramente il celacanto, un pesce di grandi dimensioni e di un bel blu acceso che vive nelle acque profonde dell’Oceano Indiano. In passato si riteneva che la famiglia di pesci a cui appartiene questo animale fosse estinta sin dal tempo dei dinosauri.
Inaspettatamente, però, nel 1938 Marjorie Courtenay-Latimer, curatrice del museo di East London in Sudafrica ne ritrovò un esemplare, causando un enorme clamore mediatico. Non esistono però fossili delle due attuali specie di celacanto, che sono i sopravvissuti della linea evolutiva della famiglia. Le informazioni sull’evoluzione di questi animali sono, per questo motivo, ancora molto frammentarie.
Di recente, notizie di ritrovamenti inaspettati si sono succedute con una certa frequenza. Forse perché, sotto la spinta dell’urbanizzazione e della deforestazione, zone un tempo remote ora sono più facilmente alla portata di biologi o semplici osservatori.
Il celacanto è la dimostrazione vivente di quanto limitate siano le nostre conoscenze sulla natura delle profondità marine. Anche le foreste tropicali, però, celano al loro interno un gran numero di specie elusive e di cui abbiamo scarsissima conoscenza.
Riscoperte recenti
Di recente, notizie di ritrovamenti inaspettati si sono succedute con una certa frequenza. Forse perché, sotto la spinta dell’urbanizzazione e della deforestazione, zone un tempo remote ora sono più facilmente alla portata di biologi o semplici osservatori.
Un caso notevole è il “celacanto dei mammiferi”: il ratto delle rocce laotiano (Laonastes aenigmamus). Nel 2004, Robert Timmins della Wildlife Conservation Society osservò degli strani roditori venduti come cibo presso un mercato locale nel Laos centrale. I nativi gli dissero che si trattava di Kha Nyou (ratto delle rocce), che vivevano soltanto tra gli affioramenti rocciosi della regione di Khammouane.
In effetti le informazioni erano giuste, ma gli animali non erano imparentati con nessun roditore vivente. Due anni dopo si scoprì che bisognava risalire al record fossile: appartengono alla famiglia Diatomyidae, ritenuta estinta da almeno 11 milioni di anni.
Come ricompare una specie
La casistica è più corposa di quanto si potrebbe pensare. Negli ultimi 120 anni, infatti, sono avvenute oltre 300 riscoperte di specie considerate estinte da periodi più o meno lunghi. Le cause di questo fenomeno possono essere diverse. Spesso dipendono dal fatto che esistono animali molto elusivi e difficili da osservare sul campo. Quando questi subiscono un drastico calo di popolazione, diventano veri e propri aghi in un pagliaio.
Le difficoltà si moltiplicano quando queste specie vivono in ambienti non facilmente accessibili o molto vasti e difficilmente monitorabili da ricercatori per lunghi periodi. Non deve quindi stupire se le fototrappole abbiano documentato l’esistenza molte delle nuove “Lazarus species”. Questi sistemi sono ormai diventati uno strumento quasi indispensabile per la zoologia da campo.
Va detto però che altre volte ci sono specie “scomparse” per mancanza di interesse o per impossibilità di indagare. Spesso, chi deve prendere le decisioni dirotta i (pochi) fondi disponibili per studiare animali che forse non esistono più.
Negli ultimi 120 anni sono avvenute oltre 300 riscoperte di specie considerate estinte da periodi più o meno lunghi.
Specie perdute e ritrovate
È emblematico il caso del geco di terra di Jeypur (Geckoella jeyporensis), scoperto nel 1877 dal colonnello inglese R. H. Beddome e da allora conosciuto soltanto per un singolo esemplare da lui raccolto presso il distretto di Koraput (Odisha, India). Da quel momento non ci furono più segnalazioni per oltre 130 anni. Poi, a cavallo del 2008-2009, il dottorando Ishan Agarwal del Centro di Scienze Ecologiche di Bangalore (Istituto Indiano delle Scienze) decise di cimentarsi nell’impresa, spinto dal desiderio di saperne di più.
Il primo passo fu quello di rintracciare il maggior numero possibile di riferimenti bibliografici. Lo scopo era ricostruire il viaggio che Beddome aveva compiuto oltre un secolo prima nella catena montuosa degli Eastern Ghats. L’unico indizio emerso riportava che l’esemplare si nascondeva sotto una roccia a 1200 metri d’altezza presso Patinghe Hill, Jeypur. La prima spedizione sul campo ebbe luogo nel 2010 senza ottenere nessun risultato, ma nel 2011, contro ogni previsione, una seconda missione riuscì finalmente nell’impresa.
Emblematiche le parole del noto erpetologo Aaron M. Bauer, che ebbe il compito di studiare la tassonomia della specie: «Ci sono diverse specie che non sono state più segnalate dai tempi della loro descrizione. Sebbene alcune di queste possano essere rare, ristrette ad areali limitati o difficilmente osservabili a causa di caratteristiche eco-etologiche come stagionalità, abitudini fossorie e vita arboricola, molte delle cosiddette specie perdute sono semplicemente non cercate dai biologi da campo».
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Le “Lazarus species” riscoperte negli ultimi mesi
Negli ultimi mesi si sono verificati alcuni ritrovamenti notevoli, tra cui il più clamoroso è probabilmente Malacocincla perspicillata, un uccello appartenente alla famiglia Pellorneidae. Questo animale riapparve in Borneo dopo 180 anni dall’ultima osservazione. Di lui si aveva un unico esemplare impagliato, risalente al XIX secolo. Il violento impatto della deforestazione nel Borneo indonesiano potrebbe mettere a grave rischio il futuro di questa “Lazarus species”. Le informazioni sul suo stato di conservazione sono però ancora troppo frammentarie per poter fare previsioni accurate.
L’insetto era stato descritto per la prima dal naturalista inglese Alfred Russel Wallace nell’Ottocento e da allora le osservazioni erano state molto rare, creando così un’aura di leggenda intorno a questo insetto.
Le terre indonesiane hanno regalato un’altra grande riscoperta nel 2019. Un team di ricerca guidato da Clay Bold ed Ed Wyman ha infatti osservato, dopo ben 38 anni dall’ultimo avvistamento, l’ape Megachile pluto. Con dimensioni che possono arrivare a quasi 4 centimetri di lunghezza e un’apertura alare di oltre 6 centimetri, gli scienziati considerano questo animale l’ape più grande del mondo. L’osservazione è avvenuta su un’isola delle Molucche, dove i ricercatori hanno osservato una femmina che aveva nidificato all’interno di un termitaio nel tronco di un albero. Il celebre naturalista inglese Alfred Russel Wallace era stato il primo a descrivere questa specie nell’Ottocento. Da allora le osservazioni erano state molto rare, creando così un’aura di leggenda intorno a questo insetto. Si era anche sviluppato un mercato di collezionisti senza scrupoli, interessati all’acquisto di esemplari essiccati, valutati anche migliaia di dollari.
Altre riscoperte clamorose
In Australia, in tempi recenti, i ricercatori hanno riscoperto un’altra ape di cui si erano perse le tracce da tempo. L’ultima osservazione ufficiale di Pharohylaeus lactiferous, infatti, risaliva infatti al 1923. O almeno è stato così sino a febbraio 2021, quando è stato pubblicato un paper che annunciava il suo rinvenimento dopo quasi un secolo.
Di stretta attualità è anche la riscoperta di una rana filippina, Pulcharana guttmani, di cui non si avevano notizie dal 1993. Gli scienziati hanno nuovamente osservato questa specie nel suo ambiente naturale nei mesi scorsi. Potrebbe trattarsi dell’anfibio più raro delle Filippine, se non del mondo intero.
Sebbene siamo molto più abituati a concentrarci sugli animali, anche il mondo vegetale non è esente dal “Lazarus effect”. Basti pensare alla conifera Wollemia nobilis, riscoperta nel 1994 in un canyon di un parco naturale nel sud-est australiano dal guardaparco David Noble. Prima di allora, gli unici esemplari conosciuti erano fossili risalenti a milioni di anni fa. E, a questo punto, viene da domandarsi come mai queste scoperte clamorose si siano succedute con una tale frequenza di questi ultimi tempi.
Un cambio di prospettiva
Nella serie televisiva “The River”, ambientata nel cuore dell’Amazzonia, uno dei protagonisti afferma che «oggi le scoperte non si fanno più nelle foreste, ma nei laboratori». La realtà delle cose è un po’ più complessa, ma è senz’altro vero che la zoologia è molto cambiata negli ultimi anni e oggi l’aspetto molecolare e genetico ha assunto un ruolo predominante nella ricerca.
Nell’ambito della conservazione, però, esiste anche un termine che descrive l’opposto dell’effetto Lazzaro, ossia “l’errore di Romeo” (dal noto personaggio di Shakespeare). L’ornitologo Nigel J. Collar introdusse questo concetto in letteratura nel 1998. Con questo, si indica la tendenza a ritenere estinta una specie invece ancora presente. Questo è un errore che abbassa notevolmente le chances di sopravvivenza della specie, perché non è possibile proteggere ciò che si considera estinto. Oggi sappiamo ad esempio che il parrocchetto della Carolina (Conuropsis carolinensis), considerato estinto negli anni Venti, sopravvisse inosservato dagli zoologi sino al 1950. Un altro caso fu la tigre del Caspio, considerata estinta nel 1970, e probabilmente sopravvissuta in Turchia fino al 1990.
Di recente diversi biologi conservazionisti hanno proposto un approccio maggiormente aperto e interdisciplinare per migliorare le nostre conoscenze sul mondo naturale. Ad esempio, discipline come etnozoologia ed etnobotanica sono state sin troppo spesso relegate all’ambito delle scienze sociali e trascurate dai biologi. Queste scienze possono invece fornire tantissime e accurate informazioni. Ad esempio il Vika (Uromys vika), roditore endemico delle Isole Salomone, è stato descritto soltanto nel 2017, ma i nativi conoscevano da sempre la sua esistenza. Le prime informazioni scritte sul suo conto risalgono agli anni Novanta, all’interno di ricerche etnografiche condotte dagli antropologi.