Esploro luoghi conosciutissimi.
Ho con me buoni occhi e buone gambe e l’urgenza di lasciare casa, che amo.
Sono un esploratore buffo, e un po’ deriso forse, amo infilarmi tra le pieghe all’ombra e al sole di territori non molto distanti.
Sono andato a Milano, Genova, Torino, Piacenza sempre partendo da casa mia, a piedi.
Esco di casa, chiudo la porta e comincio a viaggiare.
Il mio è un gesto politico ed esplorativo.
Voglio scoprire nei posti, ciò che non si trova scritto da nessuna parte, voglio perdermi in luoghi che conosco apparentemente.
Intendo il viaggiare come un transito attento e passionale che va da un luogo ad un altro.
La meta è sempre in secondo piano.
Mi interessa il mentre, lo spazio di mezzo.
Nell’epoca delle conquiste alpinistiche e dei viaggi in aereo da una parte all’altra del mondo, io mi avventuro alla scoperta di montagne “minori” paesi, città e periferie italiane, che distano qualche centinaia di chilometri da casa mia.
Non mi reputo uno sportivo, anche se cammino e vado in bicicletta con costanza più volte a settimana e non inseguo la performance, i numeri, i record.
Viaggio perché mi interessa mangiare e digerire i chilometri che ho sulle gambe, negli occhi e perdermi tra i vini e i cibi dei posti, tra i dialetti, tra i fiumi e i mari che incontro, tra i paesi vicini alla fine.
Cammino tra l’addio e il benvenuto, senza gloria, senza clamore, pratico il paesaggio, ne faccio parte e lo celebro.
Qualsiasi paesaggio, non solo quello da rivista o pieno di curve suadenti.
Mi interessano gli alberi secolari nei giardini nobili e i rosolacci che crescono sui marciapiedi.
Il selvatico e il domestico.
C’è qualcuno che prende un aereo ed è convinto di fare un viaggio.
Penso.
Difficile capire cosa si sta facendo se non si ha la possibilità di guardarsi da lontano.
La lontananza è una sorta di luogo, di strumento, di possibilità.
Ogni tanto bisogna andarci, va utilizzata.
Credere nella lontananza vuol dire anche credere nella vicinanza, anch’essa fondamentale alla vita.
Mi muovo tra il vicino e il lontano ed è li in mezzo che trovo per un attimo equilibrio ed armonia.
Faccio pensieri corti e pensieri lunghi, e credo che tutto sia possibile.
Viaggiare per me è tutto questo.
Un aggroviglio di sentimenti vicini e lontani, di emozioni corte e lunghe, di urli e bisbigli.
Di rovi e lavande.
Viaggiare vuol dire stare dentro al tempo, farne parte, essere figlio suo.
Il tempo del viaggio è uno scrigno; il tesoro è il luogo fisico e umano.
Senza giudizio lo dico.
Proprio non mi hanno mai attratto viaggi del genere, infatti non ne ho quasi mai fatti.
Fino ad una decina di anni fa non avevo mai viaggiato e sentivo che avevo una grossa stanza vuota dentro di me.
Sentivo come una una corda che non suonava, sorda.
Una bomba inesplosa, una torta non lievitata.
Eppure ho sempre camminato, con costanza, ho percorso per quindici anni i sentieri delle Alpi cuneesi, ho scalato diverse montagne come la Marmolada, la Punta Gnifetti del Rosa, il Monviso, ma sentivo che mancava qualcosa, forse la più importante.
Il viaggio.
Prima che cominci la stagione agricola, con in suoi tempi frenetici e impetuosi, andrò a Taranto in bicicletta per andare a trovare mio padre.
Nicola è mancato una decina di anni fa a causa di un brutto cancro, aveva sessantasette anni.
Non siamo mai andati molto d’accordo, ma questa è un’altra faccenda.
Sento di dovergli questo viaggio, sento che devo andare a vedere dove è nato e cresciuto, odorare la strada dove da bambino ha giocato a pallone, guardare i palazzi che hanno incorniciato la sua infanzia.
Sarà un viaggio di silenzi e di pianoforti nelle orecchie.
Ne parlerò, credo, nelle prossime puntate di Acacie.