Quando nel 2020, tra maggio e luglio, 282 container salparono dal porto di Salerno carichi di balle di rifiuti diretti in Tunisia, il sistema di controllo doganale non rilevò niente di anomalo. Li fece partire classificandoli come CA, controllo automatizzato, ovvero nessun controllo. Solo una volta arrivati a destinazione, le dogane tunisine si accorsero che qualcosa non andava. A giugno, durante un’ispezione, un funzionario vide che i rifiuti nei container arrivati al porto di Sousse dall’Italia non erano davvero riciclabili, come dichiarato. Settanta dei 282 container erano però già passati inosservati. Il loro contenuto occupava l’hangar di un capannone a una decina di chilometri da Sousse: 1.977 tonnellate che, stando ai documenti che la Regione Campania riceverà a distanza di qualche mese, avrebbero dovuto già essere state riciclate.
Fu una trasmissione televisiva tunisina, Les 4 vérités (Le quattro verità), a far scoppiare lo scandalo nel novembre 2020. In Tunisia si arrivò in poco tempo all’arresto di personaggi di rilievo, tra cui l’ex ministro dell’Ambiente, un dirigente del ministero dell’Ambiente, funzionari delle dogane, delle agenzie per l’Ambiente e per la gestione dei rifiuti. Condannate sei persone in primo grado (tra cui il titolare dell’azienda tunisina destinataria dei rifiuti, irreperibile da fine 2020) a gennaio 2023; a distanza di pochi mesi tre sono state rilasciate per decisione della corte d’Appello, per avere ormai scontato la pena.
Rifiuti: Un’infrastruttura debole
In Italia invece le prime misure di custodia cautelare risalgono a fine febbraio di quest’anno. I magistrati della procura di Potenza hanno disposto provvedimenti restrittivi per 11 delle 16 persone e due delle quattro società al centro delle indagini: soci, legale rappresentante e alcuni impiegati della ditta campana che ha effettuato la spedizione e altre aziende a essa collegate; socio e legale rappresentante della ditta calabrese che ha ceduto il contratto con la Tunisia; un intermediario italiano titolare di una società di servizi in Tunisia; il rappresentante della ditta tunisina destinataria dei rifiuti; e il funzionario della Regione Campania che ha seguito la procedura di notifica.
Misure che il tribunale di Salerno, al quale è stata riconosciuta la competenza a seguito dei ricorsi di alcuni indagati, ha per lo più confermato. A eccezione di una che è stata revocata, secondo fonti di stampa, perché la persona in questione è diventata socio della ditta solo successivamente alle spedizioni in Tunisia.
Nell’ordinanza della procura lucana si parla di un traffico illecito transnazionale di ingenti quantitativi di rifiuti. L’obiettivo è quello di risparmiare sui costi di smaltimento di quello che rimane dopo il trattamento meccanico (selezione, triturazione, compattazione, etc.) dei rifiuti urbani, che corrisponde al codice 19 12 12 dell’elenco europeo dei rifiuti. Il codice appartiene a una più ampia categoria – quella che inizia con il 19 – che comprende i rifiuti che derivano dagli impianti che trattano rifiuti. Tra questi c’è anche un altro codice che spesso finisce all’estero, 19 12 04, ovvero plastica e gomma, che si adopera sia per gli pneumatici triturati che per le plastiche miste che risultano dal passaggio in questi impianti.
In Italia gli impianti di trattamento meccanico sono circa 130. «Non tantissima, ma un po’ di infrastruttura per trattare i nostri rifiuti ce l’abbiamo», spiega l’avvocata Paola Ficco, direttrice della rivista Rifiuti edita da Edizioni Ambiente. «Poi, inevitabilmente, siccome abbiamo un’infrastruttura debole, le frazioni in esubero cercano l’estero; e non sempre lo fanno in modo legittimo».
La chiusura del mercato cinese dei rifiuti plastici
Nel 2017 la Cina ha annunciato di voler vietare a partire dall’anno seguente le importazioni di 24 tipologie di rifiuto, tra cui la plastica. Da allora, gli illeciti si sono moltiplicati. Dapprima a colpire l’attenzione degli inquirenti è stato il crescente numero di incendi negli impianti che trattano rifiuti. Un documento della commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite nel ciclo dei rifiuti ne ha contati 239 tra il 2017 e il 2019. A fronte dei primi provvedimenti giudiziari, gli incendi sono andati a scemare. Al loro posto, gli investigatori hanno iniziato a trovare capannoni in disuso pieni zeppi di rifiuti. Solo nel Nord Italia, tra il 2019 e il 2020 ne hanno sequestrati centinaia.
«Il mercato cinese assorbiva una grande quantità di plastiche industriali», sottolinea l’avvocata Ficco. Si tratta per lo più di plastica mista, un materiale che è difficilissimo e poco conveniente riciclare. «Con la chiusura dei mercati cinesi ci siamo riempiti di questi rifiuti che trovano esiti non sempre commendevoli».
Se infatti nel Nord Europa questi rifiuti plastici finiscono spesso nei termovalorizzatori per il recupero energetico, in Italia questi impianti sono soltanto 36, dislocati soprattutto al nord. Anche le discariche faticano ad assorbirli. Per cui si guarda ad altri paesi.
«Le raccolte [differenziate] in Italia funzionano e funzionano bene, però rischiamo di avere più rifiuti raccolti rispetto a quelli che possiamo davvero riciclare. Perché non mancano solamente le discariche e i termovalorizzatori», aggiunge Ficco. «Mancano proprio gli impianti di riciclo».
Alcune operaie separano la plastica presso l’impianto di riciclo della plastica Ecoinvest, Pazardzhik, Bulgaria, 23 maggio 2023.
Quando, a inizio 2020, l’azienda campana responsabile dei 282 container (la S.R.A. di Polla) ha contattato l’ufficio autorizzazioni ambientali e rifiuti di Salerno per la spedizione in Tunisia, nella sua istanza lamentava l’assenza di un mercato per una frazione riciclabile di 19 12 12: il fatto stesso che da questi rifiuti si possa estrarre una frazione riciclabile, però, è poco plausibile. L’azienda lamentava anche l’aumento di questo rifiuto sul mercato a fronte di spazi sempre inferiori per lo smaltimento in discarica – e una conseguente lievitazione dei costi.
Secondo il calcolo fatto dagli inquirenti, per lo smaltimento in Italia l’azienda campana avrebbe speso sui 205 euro a tonnellata. Grazie all’accordo con la ditta tunisina Soreplast, invece, ne spendeva al massimo 48, da sommare a circa 5 euro – sempre a tonnellata – per lo sdoganamento, risparmiando così sulle 150 euro a tonnellata.
Rifiuti urbani o rifiuti speciali?
Ficco spiega che la Campania ha un annoso problema con il 19 12 12: le famose ecoballe. «Continuano a mettere insieme questi rifiuti urbani, non essiccati, semplicemente incartati, che quindi da rifiuti urbani diventano rifiuti speciali. Il problema è ormai strutturale».
Diventando speciali, i rifiuti non devono più rispettare il principio di prossimità stabilito per quelli urbani dalle normative europee. Possono muoversi.
Solitamente questa tipologia di rifiuti si muove più volentieri all’interno dei confini europei. Nel 1989 infatti è stata istituita la convenzione di Basilea, che aveva l’obiettivo di contrastare il dumping di rifiuti pericolosi nel sud del mondo attraverso la procedura del consenso informato preventivo (Pic, dall’inglese prior informed consent). Questa convenzione ha una propria classificazione dei rifiuti e riserva per quelli urbani – ai quali dà il codice Y46, anche una volta diventati 19 12 12 – la stessa attenzione di quelli pericolosi. Prima di dare l’ok a una spedizione, dunque, le autorità competenti dei paesi coinvolti devono valutare numerosi documenti che giustifichino la necessità dell’esportazione e dimostrino che l’azienda ricevente sia adatta a ricevere il tipo di rifiuti in questione.
Questo livello di controllo – seppur per lo più documentale – non è invece sempre previsto per quei codici considerati non pericolosi inclusi nell’allegato IX della convenzione di Basilea e traslati nel cosiddetto “elenco verde” del regolamento europeo sui movimenti transfrontalieri dei rifiuti. Queste tipologie, se destinate al riciclo o al recupero energetico, possono viaggiare in molti paesi con un semplice documento di trasporto. Finora tra questi c’erano anche vari rifiuti classificati 19 12 04, come quelli a cui la convenzione di Basilea attribuisce il B3011, ovvero rifiuti plastici puliti e non pericolosi destinati al riciclo. Non sempre però quanto dichiarato sulla carta corrisponde al vero.
Area di stoccaggio dei rifiuti plastici dell’azienda di riciclo Megaport. Gorna Oryahovitsa, Bulgaria, 22 maggio 2023.
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Il rifiuto di Schrödinger
A settembre 2022, a seguito di un’ispezione al porto di Londra, lungo la foce del Tamigi, l’Agenzia inglese per l’ambiente ha bloccato 40 container diretti in Egitto. Invece di bottiglie in Pet (polietilene tereftalato) selezionate, come indicato nei documenti di trasporto, il container ispezionato conteneva imballaggi sporchi. Secondo chi ha effettuato l’ispezione, si sarebbe potuto trattare di rifiuti urbani non differenziati, tipologia che avrebbe richiesto la procedura Pic.
«I codici sono come il gatto di Schrödinger», dice Sedat Gündoğdu, biologo marino esperto di inquinamento da microplastiche e professore all’università di Çukurova, in Turchia. «Non sai mai cosa ci sia dentro un container finché non lo apri e controlli tutte le balle al suo interno».
Secondo quanto riscontrato nel 2021 da Impel, la rete dell’Unione europea per l’attuazione e il rispetto del diritto ambientale, il 46% delle spedizioni sottoposte a ispezione dalle autorità dei paesi aderenti alla rete erano rifiuti: di queste tra il 23 e il 29% violavano qualche norma; nel caso dei carichi contenenti rifiuti plastici circa il 40% non era in regola. L’anno seguente circa il 20% dei carichi che contenevano rifiuti plastici presentava violazioni. Si tratta di numeri comunque non esaustivi, perché non includono i dati di tutti i paesi. Inoltre, i tassi di ispezione spesso variano da stato a stato, a seconda dell’attenzione delle autorità ambientali, delle dogane e dell’utilizzo o meno di fonti di intelligence.
Il colonialismo dei rifiuti
Considerando soltanto i rifiuti plastici, tra le destinazioni extraeuropee che negli ultimi tre anni hanno visto, per quantità e frequenza, un maggior numero di violazioni, spiccano Malesia, Vietnam, India e Pakistan; mentre, più vicini a noi, Egitto, ma soprattutto Turchia.
«La Turchia è diventata la nuova Cina», afferma Paola Ficco. «È diventata la principale destinazione dei rifiuti europei».
Circa otto anni fa, mentre raccoglieva campioni di acqua nel Mediterraneo per una ricerca sulle microplastiche, Gündoğdu è rimasto stupito nel vedere della plastica triturata in mare. A differenza della plastica che era solitamente abituato a trovare, questa non mostrava semplici segni di deterioramento ambientale. Seguendo il corso del fiume Seyhan, uno dei principali corsi d’acqua della provincia turca di Adana, dove vive, quasi al confine con la Siria, Gündoğdu ha notato molti impianti che trattano rifiuti plastici e scaricano le proprie acque reflue in canali usati per l’irrigazione. Perlustrando meglio la zona, ha trovato una trentina di discariche abusive di plastica triturata e imballaggi che riportavano scritte in varie lingue straniere.
«La maggior parte erano tedesche, francesi, italiane e britanniche», sostiene.
Da allora non ha mai smesso di monitorare la situazione e di denunciare quello che, come molti altri, chiama colonialismo dei rifiuti.
L’odissea del rimpatrio dei rifiuti
Nel caso del carico spedito dall’Italia in Tunisia nell’estate 2020, c’è voluto più di un anno per far rientrare i rifiuti nel porto da cui erano partiti.
A definire illegale la spedizione ci ha pensato nel dicembre 2020 il titolare effettivo del focal point tunisino della convenzione di Basilea in una email indirizzata a vari enti tunisini e italiani, tra cui l’ufficio della Regione Campania che aveva autorizzato la spedizione. Oltre a mettere nero su bianco che l’agenzia tunisina che aveva dato il via libera non era quella titolata a farlo, l’email sottolineava che le importazioni di rifiuti con codice Y46 (i rifiuti urbani) sono severamente vietate dalla Tunisia, secondo le disposizioni di un’altra convenzione internazionale, quella di Bamako, in vigore dal 1998 e sottoscritta da 26 paesi africani.
L’Italia doveva riprendersi i rifiuti.
ll rimpatrio avvenne nel febbraio 2022. Ma gran parte di quel che resta del contenuto dei primi 70 container, scaricati nel capannone della Soreplast vicino a Sousse e andati in fiamme in concomitanza con una visita dell’allora ministro degli esteri Luigi Di Maio a fine 2021, è ancora nel paese nordafricano.
«Sono ancora laggiù», dice Majdi Karbai, ex parlamentare tunisino, il primo a denunciare in Italia il caso dei rifiuti campani spediti in Tunisia. Karbai sottolinea inoltre che rifiuti illeciti continuano a essere inviati in Tunisia. Lo sostiene portando ad esempio le 82,5 tonnellate di rifiuti misti dichiarati come tessili sequestrate a Marina di Carrara a inizio aprile.
Oltre a una soluzione per i resti bruciati dunque, urge anche trovare un modo per far sì che l’occidente non continui a inquinare le acque e i terreni di altri paesi.
Il dilemma rimane: regolare o vietare?
L’Unione europea ha recentemente fatto i conti con molte di queste problematiche introducendo norme più stringenti per le esportazioni di rifiuti, che verranno applicate a partire dal 21 maggio 2026. Oltre all’adozione di un sistema elettronico interoperabile per migliorare la tracciabilità di queste movimentazioni, ha reso obbligatoria la procedura di notifica e autorizzazione anche per la plastica pulita non pericolosa destinata al riciclo (B3011) al di fuori dell’Ue. A dire il vero il nuovo regolamento vieterà l’esportazione di questo tipo di rifiuto non pericoloso verso i paesi extra-europei non appartenenti all’Ocse dal novembre 2026 al maggio 2029, se non poi prevedere per chi volesse riceverli per recuperarli la possibilità di farne richiesta successivamente a quella data.
Anche per questo motivo, secondo l’avvocata Paola Ficco e altri esperti, con il nuovo regolamento non cambierà molto. «È evidente che quando si aprono flussi leciti accanto ci stanno i flussi illeciti», afferma. E sottolinea che se per noi i rifiuti sono un problema, per altri paesi sono oro. Non possiamo però continuare a esternalizzare i costi sociali, ambientali, economici e sanitari della gestione dei rifiuti: «I problemi vanno gestiti e per gestire il problema dei rifiuti, abbiamo bisogno di impianti e di una generazione manageriale e imprenditoriale che li sappia fare funzionare».
«Ogni paese dovrebbe assumersi la responsabilità dei propri rifiuti», sembra farle eco Gündoğdu. «Essere un membro dell’Ocse (ndr, come lo è la Turchia) non rende un paese una destinazione sicura per i rifiuti».
A questo articolo ha contribuito Laura Carrer. I grafici sono a cura di Guia Baggi.