Pulire o non pulire i fiumi. In questo periodo, mentre ancora le allerte meteo affliggono diverse regioni italiane, e mentre migliaia di persone sono state sfollate a causa delle alluvioni, i fiumi sono trattati come vere problematiche della geografia d’Italia. Prima troppo secchi, ora troppo gonfi di acqua. Tutto troppo velocemente. Certo, noi li chiamiamo fiumi, ma molti dei corsi d’acqua della dorsale appenninica hanno un caratteristico regime torrentizio, ovvero sono soggetti a onde di piena improvvise. Oggi più improvvise, in un contesto in cui il cambiamento climatico acuisce gli eventi estremi. Piogge intense incluse.
Ma dunque, come prenderci cura dei nostri corsi d’acqua? Francesco Comiti, idrologo e geomorfologo fluviale presso la Libera Università di Bolzano, spiega come funzionano i nostri corsi d’acqua e commenta sulla utilità della pulizia dei fiumi.
In questo periodo si parla molto di pulire i fiumi: cosa si intende di preciso?
Quando si parla di puliire i fiumi spesso si intende indistintamente la rimozione di sedimenti e vegetazione. Tutti i corsi d’acqua, che siano grandi fiumi o piccoli torrenti, ad eccezione di quelli che scorrono nella roccia, hanno alveo e sponde formate da sedimenti. Sulle sponde e sulla piana inondabile adiacente cresce naturalmente la vegetazione arbustiva e arborea. Si tratta di specie adatte a resistere a brevi periodi di sommersione, mentre arbusti ed alberi riescono a insediarsi negli alvei se vi sono depositi (le cosiddette barre) con le giuste caratteristiche dei sedimenti. La presenza di canali di magra, barre, isole, tronchi “spiaggiati” e sponde densamente vegetate rappresenta la forma naturale di molti corsi d’acqua.
O meglio, la rappresentavano prima che questi venissero canalizzati con sezioni molto ridotte per far spazio all’agricoltura, agli insediamenti produttivi e urbani. Ma basta guardare le mappe storiche del 1800 o le foto aeree degli anni ’40 e ’50 del secolo scorso per capire come i fiumi italiani fossero molto più larghi e complessi dal punto di vista morfologico ed ecologico fino al recente passato.
Poi, oltre alla canalizzazione, sono arrivate le estrazioni di ghiaia in alveo, le briglie e le dighe che hanno ridotto fortemente il trasporto dei sedimenti. Gli alvei si sono così incisi e ristretti, disconnettendosi dalla loro piana inondabile se non durante gli eventi di piena eccezionali. Ormai però queste aree, una volta fluviali, sono state antropizzate ed ecco che riscopriamo che i fiumi non possono essere contenuti in sezioni limitate, neppure quando arginate. Esistono eccezioni a questa dinamica evolutiva di mancanza di sedimento e di incisione spinta, ma gli studi scientifici compiuti in Italia documentano un diffuso deficit di sedimento negli alvei, non un surplus!
Alcuni escavatori lavorano su entrambe le sponde dell’argine che il fiume Santerno ha rotto tra Cà di Lugo e San Lorenzo, due frazioni dell’area rurale intorno a Lugo (Ravenna). Da un lato viene ricostruito il contenimento, dall’altro viene abbattuta una casa gravemente danneggiata dall’esondazione dei giorni precedenti il 20 maggio 2023.
Dunque vogliamo pulire alvei che sono già stati ripuliti, in un certo senso. E dunque la pulizia?
La mancanza di sedimento causa crolli delle difese spondali e delle pile dei ponti, oltre che problemi all’ecosistema fluviale. Quindi, una “pulizia” intesa come asportazione dei sedimenti dagli alvei può essere sensata e giustificabile soltanto in alcuni contesti. Il primo è il caso di un alveo che si sta colmando, facilitando le inondazioni; la seconda è la presenza di infrastrutture esposte al pericolo e che non si possono spostare, come edifici o strade importanti che potrebbero subire un aumento significativo della probabilità di inondazione se non si intervenisse. In assenza di queste condizioni, la “pulizia” è da considerare un danno all’ecosistema fluviale e alla società.
E la vegetazione? Che ruolo gioca in tutto questo?
Nell’alveo e lungo le sponde, essa svolge funzioni fondamentali per tutto l’ecosistema fluviale e ripariale. Inoltre, stabilizza il terreno limitando l’arretramento spondale durante i fenomeni di piena, ovviamente entro a una certa soglia di forza della corrente. Questa stabilizzazione avviene sia grazie alle radici, sia in virtù del rallentamento che la vegetazione esercita sul flusso, riducendone la capacità erosiva lungo le sponde. Rallentare la corrente e farla straripare su aree naturali o agricole è positivo per diminuirne la pericolosità a valle, agendo quindi una laminazione diffusa. Su questo principio si basano gli interventi win-win di riqualificazione fluviale, che funzionano dal punto di vista della mitigazione del rischio tanto più sono ampie le aree che sono allagabili a monte dei centri abitati.
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In alcuni casi però la vegetazione è un problema.
Il problema della vegetazione, spondale o sulle isole fluviali, che rallenta la corrente non è quasi mai sostanziale durante una piena eccezionale. E questo vale sia nel caso di fiumi con sezioni naturali larghe, sia in torrenti montani dove la vegetazione conta poco nel determinare la velocità dell’acqua. Perciò, il più delle volte, non ha senso tagliarla, creando un danno ecologico e rendendo più instabili le sponde. Sui canali o in tratti artificiali troppo stretti è invece spesso necessario “tenere a bada” la vegetazione, sempre che appunto ci sia un problema vero di elementi a rischio. Ciò avviene tipicamente nei canali artificiali o comunque nei tratti fluviali non naturali.
Un telo di plastica copre una parte di argine appena ricostruita lungo il fiume Santerno nell’area rurale intorno a Lugo (Ravenna) il 20 maggio 2023.
E quando questa ostruisce ponti e tombini?
Il problema esiste, ma solo qualora vi siano dei ponti “critici”. Abbiamo documentato numerose alluvioni in Italia e all’estero, e quasi sempre si è osservato come questa non era legata a nessuna ostruzione ma, più semplicemente, la portata era eccessiva per le dimensioni degli alvei. Abbiamo anche osservato che la strozzatura causata dal ponte era di per sé insufficiente a far passare la portata di piena, anche senza tronchi accumulati. Infine, nei bacini collinari e montani una buona parte del detrito deriva da frane e colate di detriti.
E quindi non da legno già presente nell’alveo, ma dalle conseguenze dell’evento meteorico.
Esatto. Difatti ormai c’è consenso nella comunità scientifica e tecnica internazionale sul fatto che rimuovere i tronchi dagli alvei non serve a molto se non a infondere un falso senso di sicurezza nella popolazione. Se vogliamo veramente mitigare il pericolo che i tronchi possano ostruire i ponti abbiamo due scelte: possiamo rendere i ponti meno vulnerabili (più alti, più larghi e senza pile dove possibile), oppure costruire opere filtranti di trattenuta a monte degli abitati. Se proprio non è possibile seguire queste strade, e in presenza di ponti “critici”, allora ha senso l’utilizzo di tagli selettivi che rimuovano le piante di dimensioni maggiori e riducano di dimensione i tronchi troppo lunghi presenti in alveo, preservando il più possibile la copertura vegetale spontanea.