L’11 marzo 2011, un violento terremoto e uno tsunami colpirono il Giappone, causando il secondo più grave incidente nucleare della storia.
Lo smantellamento della centrale di Fukushima Dai-ichi e la bonifica della zona circostante procedono ancora oggi. Ma le conseguenze a lungo termine dell’incidente sono ancora in parte sconosciute.

Fukushima 2021

A dieci anni dall’incidente nucleare, lo smantellamento della centrale Fukushima Dai-ichi e la bonifica della circostante zona di esclusione procedono – più o meno – come da progetto. Ma le conseguenze nel lungo termine per le popolazioni, umana e animale, così come per l’ambiente, rimangono un’incognita.

16 minuti | 24 Febbraio 2021

Molto improbabile, ma prevedibile. Così nel 2017 la corte distrettuale di Fukushima riassunse la catena di eventi che consegnarono ai libri di testo il secondo incidente nucleare più grave della storia dell’atomo.
L’unico disastro, insieme a Černobyl’, a meritare l’etichetta “catastrofico” nella speciale scala sviluppata dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica.
Come in tutti i grandi eventi, il caso ci mise lo zampino, scoperchiando – nonostante smentite, omissioni e rimbalzi di responsabilità – la sequela di errori umani che avrebbero potuto e dovuto impedire che avvenisse l’irreparabile: errori di progettazione, lacune nei protocolli di emergenza, riluttanza ad adottare fin da subito misure drastiche che avrebbero danneggiato irrimediabilmente i reattori, improvvisazione metodologica e strumentale nella gestione dell’incidente.

Dieci dopo, cosa resta

A un decennio esatto da quel maledetto 11 marzo 2011 la bonifica della centrale Fukushima Dai-ichi e della circostante zona di esclusione procede – più o meno – come da progetto. Ma le conseguenze nel lungo termine per le popolazioni, umana e animale, così come per l’ambiente, rimangono ancora un’incognita.

Per comprendere la catastrofe ambientale e sociale che colpì la prefettura di Fukushima è impossibile isolare l’incidente nucleare dal contesto eccezionale in cui avvenne, per certi versi più tragico del crollo dei reattori in sé.

Nel primo pomeriggio dell’11 marzo 2011, a un centinaio di chilometri dalla costa orientale del Tōhoku, i sismografi registrarono un terremoto di magnitudo 8,9: il più potente mai misurato in Giappone e il quarto in assoluto.
Le scosse sismiche innescarono uno tsunami altrettanto colossale caratterizzato da onde alte decine di metri. Il maremoto si abbattè con violenza sulle prefetture di Miyagi e di Iwate che piansero buona parte dei 15.703 morti accertati, 5.314 feriti e 4.647 dispersi, dichiarati dal governo giapponese.
Nemmeno la più meridionale prefettura di Fukushima fu risparmiata. Cinquanta minuti dopo il terremoto iniziale, un’onda di 13 metri investì la diga, alta 10 metri, della centrale nucleare di Fukushima Dai-ichi, situata nella cittadina di Ōkuma, a circa 60 chilometri dal capoluogo.

Nel primo pomeriggio dell’11 marzo 2011, a un centinaio di chilometri dalla costa orientale del Tōhoku, i sismografi registrarono un terremoto di magnitudo 8,9: il più potente mai misurato in Giappone e il quarto in assoluto.

La prima fase dell’incidente 

Nel momento dell’emergenza, i tre reattori in funzione all’epoca arrestarono, come da protocollo, le reazioni di fissione, inserendo le barre di controllo. Interrotta la produzione di energia, il funzionamento degli imprescindibili sistemi di raffreddamento sarebbe dovuto essere garantito dai generatori di emergenza alimentati a gasolio, che tuttavia furono guastati dall’allagamento.

In assenza di un ricircolo di acqua, i noccioli dei reattori raggiunsero temperature di migliaia di gradi e infine fusero, producendo grandi quantità di gas di idrogeno che finì per provocare l’esplosione di quattro dei sei blocchi che ospitavano i reattori. E liberarono nell’ambiente nubi di materiale radioattivo.

In questa prima fase – l’intera emergenza si trascinò per diversi giorni – le dosi provenienti dalla radioattività da nube rimasero a livelli limitati per la popolazione. Fortunatamente, il vento spirava verso il mare – si stima che circa l’80 per cento della radioattività liberata dall’incidente sia stata riversata nell’Oceano Pacifico – e, inoltre, la popolazione residente nei dintorni della centrale era stata tempestivamente evacuata.
In una rapida escalation di misure sempre più stringenti, tra l’11 e il 15 marzo furono infatti allontanate dalle abitazioni quasi mezzo milione di persone, 160 mila delle quali per un tempo indeterminato.

La seconda fase

Nella seconda fase dell’incidente, a partire dal 15 marzo 2011, grossi quantitativi di iodio e cesio radioattivo fuoriuscirono dal blocco 2, disperdendosi nell’ambiente. Quel giorno, i venti soffiavano prevalentemente da sud-est e c’erano forti precipitazioni piovose: la zona a nord-ovest della centrale venne fortemente contaminata dai depositi di sostanze radioattive fino a una distanza di circa 50 chilometri.
Ciò causò l’aumento delle intensità di dose ambientale in seguito alle radiazioni dirette, ma anche la contaminazione degli alimenti prodotti in queste terre.

Si stima che circa l’80 per cento della radioattività liberata dall’incidente sia stata riversata nell’Oceano Pacifico.

La cittadina di Okuma, evacuata forzatamente in seguito alla contaminazione radioattiva, all’interno della Zona di Esclusione di Fukushima. Giappone, 2014.
Negozio di ceramiche abbandonato nei pressi del paese di Iitate, Zona di Esclusione di Fukushima. Giappone, 2016.
Interno di un’abitazione abbandonata a causa della contaminazione radioattiva nella cittadina di Namie, Zona di Esclusione di Fukushima. Giappone, 2013.
Piani di bonifica e mappe di contaminazione sono visibili negli uffici amministrativi del villaggio di Iitate, Zona di Esclusione di Fukushima. Giappone, 2016.

2050, quando finirà la bonifica

Secondo la più recente revisione della tabella di marcia, la completa bonifica dell’area contaminata e lo smantellamento della centrale dovrebbero concludersi al più tardi entro il 2050 e costare 21,5 bilioni di yen, pari a 170 miliardi di euro.
Il decomissioning della centrale nucleare si articola in tre azioni prioritarie: la rimozione delle barre di combustibile, che andranno rimosse e quindi trasportate in un luogo adatto per essere bonificate, il trattamento delle acque contaminate e la gestione dei rifiuti radioattivi.
La rimozione delle circa 880 tonnellate di combustibile esausto dalle apposite vasche è il compito più delicato; nell’aprile del 2019 sono state asportate le prime barre mentre l’ultimo stralcio dei lavori dovrebbe completarsi entro il 2031. Dopodiché, il destino di questi materiali si fa nebuloso.

Il Giappone non ha ancora rivelato, almeno pubblicamente, un piano – e quindi un sito – per lo stoccaggio definitivo che inoltre dovrà accogliere le circa 770 mila tonnellate di rifiuti radioattivi: detriti e suolo contaminati, fanghi provenienti dal trattamento delle acque, serbatoi demoliti e altri manufatti contaminati.

Nel complesso, ogni giorno si producono circa 170 tonnellate di acqua contaminata.

Il problema dello smaltimento dell’acqua

Il problema più pressante riguarda però lo smaltimento dell’acqua utilizzata per stabilizzare ciò che resta dei reattori.
Il flusso continuo di acqua utilizzato per raffreddarli passa attraverso un impianto di decontaminazione che rimuove la maggioranza dei radionuclidi ma non il trizio, un isotopo radioattivo dell’idrogeno che entra a far parte dell’acqua stessa. Ogni giorno la frazione di acqua ancora radioattiva viene dunque dirottata in giganteschi serbatoi di stoccaggio, che aumentano al ritmo di uno a settimana. Come se non bastasse, vanno necessariamente trattate anche le acque di dilavamento che dopo ogni pioggia penetrano nelle falde acquifere, avvelenando il sottosuolo. Per questo motivo, nel 2016 è entrato in funzione il cosiddetto “muro di ghiaccio”: un sistema di tubi refrigerati che congela per una trentina di metri di profondità il perimetro sottostante la centrale.

La contaminazione dell’acqua è stata ridotta, ma non annullata completamente. Nel complesso, ogni giorno si producono circa 170 tonnellate di acqua contaminata, contro le 400 ipotetiche senza sistemi di contenimento. Un problema non di poco conto considerato che, secondo l’operatore dell’impianto (Tepco), la capacità massima del parco serbatoi è di 1,37 milioni, cifra che verosimilmente sarà raggiunta nell’estate del 2022. Dopodiché, con ogni probabilità, i volumi stoccati verranno diluiti fino a quaranta volte e quindi sversati in mare in tempi dilatati che vanno da 5 a 15 anni.
Questo scenario è fortemente contestato dalle associazioni ambientaliste ma fedele all’approccio del “diluisci e disperdi” che, insieme al “concentra e confina”, costituiscono le due strategie cardine della gestione dei rifiuti radioattivi.

Spiaggia nei pressi di Namie, a pochi chilometri dalla centrale nucleare Fukushima-Daiichi, Zona di Esclusione di Fukushima. Giappone, 2016.
Un masso posizionato là dove si trovava un’abitazione distrutta dallo tsunami nella municipalità di Namie, Zona di Esclusione di Fukushima. Giappone, 2016.
Bonifica di una collina contaminata dalle radiazioni nei pressi del paese di Iitate, Zona di Esclusione di Fukushima. Giappone, 2018.

il nodo del trizio da smaltire

Sebbene ancora manchi un piano concreto su come procedere allo smaltimento, la quantità complessiva di trizio da smaltire – così come le dosi giornaliere previste – non supererebbero quelle rilasciate da altri impianti durante il normale esercizio.

Come spiega in un’intervista a Le Scienze il fisico Marco Casolino, ricercatore all’INFN all’Università di Roma Tor Vergata che da anni collabora con l’istituto RIKEN in Giappone, i livelli previsti si aggirerebbero intorno a 1 becquerel al litro, con picchi massimi di pochi bequerel al litro.
Questi valori si scostano poco dalla radioattività da trizio già presente nel mare per effetto del fondo naturale e delle varie emissioni umane, e non superano quella di molti corsi d’acqua dolce.
Se il trizio non rappresenta un reale pericolo per la salute umana, altri isotopi radioattivi destano qualche preoccupazione in più nel caso dovessero finire a mare: stronzio, litio o cobalto potrebbero infatti accumularsi nei sedimenti e nei tessuti degli organismi marini. E dunque finire sulle tavole delle popolazioni locali.

definire la zona di esclusione

Per quanto riguarda la bonifica delle aree contaminate, il perimetro della zona di esclusione riflette la morfologia del territorio e gli eventi meteorologici dell’epoca dell’incidente.
Si sviluppa cioè come una fascia irregolare che dalla costa penetra nell’entroterra piuttosto che come un semicerchio avente per centro la centrale. «Quella concentrica è una concezione antiquata, un retaggio derivato dallo studio dei test nucleari. Nella realtà, dispersione e deposito dei radionuclidi non seguono tracciati lineari ma irregolari. Perciò sono difficili da prevedere basandosi unicamente su una mappa» chiarisce l’ecotossicologo Andrea Bonisoli Alquati, assistant professor al Dipartimento di Scienze biologiche della California State Polytechnic University a Pomona, che tra il 2012 e il 2018 ha organizzato sei campagne di ricerca nella zona di esclusione.

In origine, essa si estendeva per 807 chilometri quadrati e prevedeva tre aree soggette a limitazioni progressive basate sulle dosi equivalenti di radiazioni. In quella più esterna, nella quale non si superavano i 20 millisievert all’anno – valore soglia dell’intensità accettabile secondo l’International Commission on Radiological Protection, pari a circa sette volte il fondo medio di radioattività naturale – era fortemente sconsigliato abitare; nelle aree comprese tra 20 e 50 millisievert annuali era permesso l’accesso ma non la residenza; le aree più contaminate, nella quali si superano i 50 millisievert all’anno, costituivano la vera e propria “zona di alienazione” nella quale era vietato l’ingresso.

Nell’agosto del 2015, le prime porzioni dell’area di esclusione sono state dichiarate sufficientemente sicure da consentire il ritorno della popolazione

il lento ripopolamento dell’area

Il programma di decontaminazione e bonifica, approvato dal governo giapponese nell’ottobre del 2011, prevedeva che tutte le aree con livelli di radiazione superiori a 1 millisievert all’anno sarebbero state decontaminate.
E che entro due anni, i livelli di radiazioni delle aree comprese tra 5 e 20 millisievert all’anno sarebbero stati ridotti del 60 per cento.
«La bonifica della sottile fascia pianeggiante compresa tra l’oceano e i rilievi montuosi è relativamente semplice poiché è sufficiente asportare lo strato più superficiale del suolo. Nelle zone montuose le operazioni sono molto più complesse e i livelli di contaminazione continuano a essere tuttora molto elevati» commenta Bonisoli Alquati.
Nell’agosto del 2015, le prime porzioni dell’area di esclusione sono state dichiarate sufficientemente sicure da consentire il ritorno della popolazione. Due anni più tardi, l’estensione dell’area di esclusione si era più che dimezzata, assestandosi a 371 chilometri quadrati, mentre nell’aprile del 2019 le autorità giapponesi comunicarono che il 40 per cento della città di Ōkuma era stato decontaminato e che gli abitanti avrebbero potuto tornare senza rischi.

Un posto di blocco impedisce l’accesso alle zone più altamente contaminate nella parte montuosa della municipalità di Namie. Giappone, 2018.
Una donna anziana in visita alla propria abitazione nella cittadina di Futaba, evacuata a causa della contaminazione radioattiva. Giappone, 2013.
Contatore dei livelli di radiazioni nei pressi degli uffici amministrativi di Iitate, Zona di Esclusione di Fukushima. Giappone, 2012.

chi decide di tornare

Delle 10 mila anime dell’Ōkuma pre-catastrofe, solamente 367 sono tornate; secondo i dati forniti dal governo, di coloro che vivevano in un’area dichiarata off-limits ha fatto ritorno il 23 per cento, per lo più anziani. Il timore delle radiazioni è infatti solamente la tessera di un mosaico più complesso.
La disgregazione delle reti sociali, tanto più importanti quanto più la comunità è piccola, la perdita del posto di lavoro e le incertezze sul futuro della regione frenano la maggioranza degli sfollati.
Non da ultimo, i dolorosi ricordi dell’11 marzo costituiscono talvolta un ostacolo insormontabile al ripopolamento. «Per gli stranieri è impossibile comprendere a fondo la drammaticità dell’evento: le persone sfollate in seguito all’incidente nucleare spesso hanno perso amici e parenti nello tsunami. Per loro, tornare in quei luoghi è qualcosa di struggente, significa compiere un viaggio a ritroso nella memoria fino a un tempo e un mondo che non esiste più, spazzato via tutto d’un tratto» prosegue Bonisoli Alquati.

I ricordi delle esplosioni e dello tsunami rimangono profondamente radicati nell’inconscio delle persone, moltiplicando i casi di ansia e depressione, episodi di panico, disturbi post-traumatici da stress e suicidi.

Le conseguenze sulla salute mentale dei sopravvissuti

In questi anni, sociologi e psicologi hanno sezionato quella che in Giappone è considerata la più grave cicatrice lasciata dalla combinazione di maremoto e disastro nucleare: le conseguenze sulla salute mentale della popolazione.
Le numerose indagini condotte tra gli sfollati hanno rivelato che, anche a distanza di anni, i ricordi delle esplosioni e dello tsunami rimangono profondamente radicati nell’inconscio delle persone, moltiplicando i casi di ansia e depressione, episodi di panico, disturbi post-traumatici da stress e suicidi.
Nella città di Fukushima sono stati segnalati fenomeni di discriminazione come il cosiddetto stigma delle radiazioni che marginalizza questi moderni hibakusha – etichetta originariamente riservata ai superstiti dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki – cioè persone originarie dei paesi vicini alla centrale nucleare.

«Se la catastrofe ambientale va lentamente cicatrizzandosi, quella culturale è ancora sanguinante. A differenza di Černobyl’, la cui vicenda, nel tempo, è stata narrata da un premio Nobel per la letteratura [Svjatlana Aleksievič], svariati film, documentari e serie televisive, per Fukushima non è ancora avvenuta una completa elaborazione del lutto» sostiene l’ecotossicologo. Le conseguenze psico-sociali hanno finito per mettere in ombra quelle epidemiologiche anche perché – dato che gli effetti delle radiazioni possono manifestarsi a distanza di molti anni – è tremendamente difficile fornire stime attendibili sull’incidenza dei tumori.

Pompa di benzina abbandonata nella cittadina di Okuma, Zona di Esclusione di Fukushima. Giappone, 2014.
Pescherecci distrutti dallo tsunami sono ammassati durante le operazioni di bonifica nella Baia di Matsukawa-Ura, Prefettura di Fukushima. Giappone, 2012.

le conseguenze sulla salute

L’incidente di Fukushima non fu catastrofico come quello di Černobyl’, che liberò nell’atmosfera un quantitativo di sostanze radioattive tra le 5 e le 10 volte superiori.
A causa di differenze nelle caratteristiche dei reattori e nelle dinamiche dei due incidenti, anche la miscela di contaminanti è diversa. «I radionuclidi rilasciati in Giappone erano quasi interamente di natura volatile o semi-volatile, mentre la combustione della grafite durante l’incidente di Černobyl’ aveva portato alla diffusione di considerevoli quantità di elementi della cosiddetta serie degli elementi chimici chiamati attinoidi, tra i quali il duraturo e famigerato plutonio» spiega Bonisoli Alquati.
Infine, la nube radioattiva sprigionata a Černobyl’ ha raggiunto distanze ben maggiori rispetto a Fukushima.
A conferma di ciò, nel 2014 il Comitato scientifico delle Nazioni Unite per lo studio degli effetti delle radiazioni ionizzanti (UNSCEAR) dichiarò che le conseguenze dell’incidente sulla salute degli abitanti sarebbero state limitate. Il rapporto riportava che non era stata osservata alcuna morte o sindrome acuta da radiazione a causa dell’incidente e che le dosi verso il pubblico generale, sia nel primo anno, che durante la loro vita, fossero generalmente da basse a molto basse.

I bambini, i più colpiti

Pertanto, non bisognava aspettarsi cambiamenti rilevanti nel numero di casi di cancro né di malattie ereditarie dovute a radiazioni in conseguenza dell’incidente nucleare, né un aumento di malattie o deformazioni alla nascita. Il Comitato ipotizzò tuttavia un leggero aumento nei casi di tumore alla tiroide nei bambini e suggerì di monitorare i casi. Le previsioni furono sfortunatamente confermate negli anni seguenti. L’unico decesso finora accertato come conseguenza dell’incidente riguarda un operaio morto nel settembre del 2018 a causa di un tumore ai polmoni, dopo aver lavorato presso la centrale in almeno due occasioni successive all’incidente.

«Se da un lato l’allontanamento dell’uomo restituisce alla Natura grandi spazi indisturbati, dall’altro le radiazioni provocano negli organismi […] mutazioni al DNA […], tassi di sopravvivenza e riproduzione ridotti, oltre che malformazioni»

Se tornano anche gli animali

«Sebbene i livelli di contaminazione raggiunti a Fukushima siano più bassi di quelli di Černobyl’, ciò non significa che, a livello biologico, siano privi di conseguenze» ricorda Bonisoli Alquati, condividendo la sua esperienza in entrambe le zone di esclusione per studiare le conseguenze delle radiazioni sulle popolazioni di rondini. «La rondine è un animale di grande valore ecologico, simbolico e culturale, un uccello migratore diffuso nell’intero emisfero boreale e dunque ideale per fare paragoni tra siti diversi» chiosa l’ecotossicologo. Tanto a Černobyl’ quanto a Fukushima, il suo gruppo ne ha esaminato l’ecologia comportamentale e le dinamiche di popolazione.
Nonché, ovviamente, lo stato di salute e il livello di esposizione alle radiazioni, applicando dosimetri a nidi e individui e prelevando campioni di sangue per valutare il danno genetico.

«Non sono del tutto d’accordo con chi definisce queste zone come dei santuari della biodiversità. Se da un lato l’allontanamento dell’uomo restituisce alla Natura grandi spazi indisturbati, dall’altro le radiazioni provocano negli organismi una pletora di mutazioni al DNA. E dunque tassi di sopravvivenza e riproduzione ridotti, oltre che malformazioni» prosegue Bonisoli Alquati.

Il caso delle rondini

Nel caso delle rondini, la combinazione dei due fattori ha esasperato, paradossalmente, il declino delle popolazioni di Fukushima. «La rondine è un animale sinantropico. In altre parole, beneficia della presenza dell’uomo che gli fornisce edifici e altri manufatti sui quali costruire il nido. Inoltre, buona parte della sua dieta è costituita da insetti che infestano il bestiame» chiarisce l’ecotossicologo, secondo il quale il ritorno delle persone nella zona di esclusione potrebbe contribuire all’inversione di tendenza. Nella buona e nella cattiva sorte, il destino dell’uomo e delle rondini di Fukushima appare legato a un doppio filo.

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  • Andrea Bonisoli Alquati

    Andrea Bonisoli Alquati è Assistant Professor in Tossicologia Ambientale alla California State University a Pomona, in California. Ha un dottorato in Ecologia dall’Università degli Studi di Milano. Le sue ricerche si concentrano sugli effetti ecologici ed evolutivi dell’inquinamento, incluso in relazione agli incidenti nucleari di Chernobyl e Fukushima, e al disastro petrolifero del Golfo del Messico.
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    Davide Michielin è biologo e giornalista. Collabora regolarmente con la Repubblica e Le Scienze occupandosi di temi a cavallo tra la salute e l’ambiente. Attualmente è Senior Scientific Manager presso il Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (CMCC) e docente al Master in comunicazione della scienza dell’Università Vita-Salute San Raffaele.
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