Le luci del tramonto calano morbide sulle acque lente della riserva della Diaccia Botrona, vicino a Grosseto.
Il paesaggio della palude sembra sospeso nel tempo, quasi immutato dal 1765 quando Leonardo Ximenes, matematico e gesuita, costruì la celebre Casa Rossa durante i lavori di bonifica della Maremma grossetana.
Accanto alla riserva, sono partiti i lavori per far sorgere la foresta di bambù più grande d’Europa. Un progetto nato per compensare le emissioni di aziende inquinanti, che però potrebbe minacciare la biodiversità locale.

In Toscana, un progetto di compensazione delle emissioni genera molti dubbi

Vicino alla riserva della Diaccia Botrona sorgerà la più grande foresta di bambù d’Europa, piantata da una holding milanese per generare crediti di carbonio. Un progetto che fa emergere i rischi e le contraddizioni del mercato delle compensazioni di CO2.

16 minuti | 12 Agosto 2024

Fotografie di Natália Alana

Alla fine dei lavori, vicino all’area protetta della Diaccia Botrona, a Castiglione della Pescaia (GR), sorgerà la più grande foresta di bambù d’Europa. Centotre ettari di Phyllostachys edulis, una specie non autoctona che rischia di minacciare il delicato equilibrio di questa area protetta. 

La piantagione è gestita da un gruppo milanese che opera anche nel mercato volontario dei crediti di carbonio e che vede tra i suoi fondatori Mauro Lajo, consigliere generale in Confindustria e Asso Ambiente con delega alla sostenibilità. Il meccanismo naturale della fotosintesi, grazie alla quale le piante assorbono anidride carbonica e rilasciano ossigeno, viene utilizzato per generare crediti di carbonio da mettere in vendita sul mercato, permettendo ad altre aziende di compensare le proprie emissioni di gas serra. La foresta di bambù che sorgerà qui, a Castiglione della Pescaia, è un progetto che rientra in questa logica: i bambù verranno piantati per assorbire future emissioni climalteranti di aziende che potranno, così, dichiararne la compensazione con espressioni come “climate neutral” e “net zero”. Un mercato non esente da critiche e aree grigie.

diaccia botrona

Questa area protetta si sviluppa su una superficie di 1.273 ettari ed è una delle paludi costiere più rilevanti d’Italia e dal 1971 dichiarata Zona Umida di rilevanza internazionale secondo la Convenzione di Ramsar. La Riserva rientra nella definizione del Ministero dell’Ambiente di SIC (Sito di importanza Comunitaria) e ZPS (Zona di Protezione Speciale). È questa un’area a grandissima importanza per la sosta, lo svernamento e la nidificazione dell’avifauna acquatica.

Il timore che i bambù invadano la riserva

Anche l’uso del bambù – una pianta inserita nella lista nera delle specie aliene da Lombardia e Piemonte – per un progetto di questo tipo suscita diverse perplessità. 

Molti esperti temono che il bambù possa espandersi fino a invadere la palude della Diaccia Botrona. Già nel 2021, la Società Botanica Italiana aveva espresso preoccupazione per questo piano commerciale senza precedenti in Italia, dove le altre coltivazioni di questa specie sono circa cinquanta volte più piccole. C’è il rischio che un progetto che sulla carta ha l’obiettivo di agire contro il cambiamento climatico possa danneggiare irreparabilmente un’area umida di eccezionale importanza ecologica, inclusa nella rete Natura2000.

foreste di bambù

Una piantagione commerciale di Phyllostachys edulis.

«Il bambù gigante è una specie esotica che può comportarsi da invasiva», spiega Alessandro Chiarucci, Professore ordinario di Botanica ambientale all’Università di Bologna ed ex Presidente della  Società Botanica Italiana. «È noto che il bambù tende a diffondersi lungo fossi e corsi d’acqua. I rizomi del bambù si espandono sotto la superficie del terreno, generando nuovi fusti. Anche un piccolo pezzo di rizoma può dar vita a una nuova pianta che può crescere indefinitamente e coprire grandi superfici in pochi anni».

La prima parte del bambuseto sorge già a poca distanza dall’area protetta. «Il nostro timore è che un pezzo di rizoma possa uscire dall’area coltivata», prosegue Chiarucci, «e che possa espandersi in modo incontrollato negli ambienti circostanti».

alessandro chiarucci

Alessandro Chiarucci, Professore ordinario di Botanica ambientale all’Università di Bologna e ex Presidente della Società Botanica Italiana.

La riserva della Diaccia Botrona ospita decine di specie animali e vegetali diverse. Tra queste, c’è la cannuccia di palude (Phragmites australis). «È una specie importante perché costituisce l’habitat per molti uccelli. La cannuccia di palude, con il suo rizoma sotterraneo e i suoi fusti, è funzionalmente simile al bambù. Se il bambù dovesse entrare nella palude, potrebbe soppiantare questa specie nativa», aggiunge il botanico. È un habitat in cui si fermano o svernano molte specie di uccelli acquatici: una settantina hanno anche i loro nidi tra i canneti di questa riserva.

Una volta ultimato, il bambuseto sarà il più grande d’Europa: una superficie pari a 144 campi da calcio coperta da alte canne di bambù. «In questi terreni non sarà più possibile svolgere altre attività agricole né effettuare interventi di rinaturalizzazione, poiché bonificare una superficie così grande dai rizomi di bambù è irrealistico», conclude Chiarucci.

diaccia botrona

Una specie nativa, la cannuccia di palude (Phragmites australis), che potrebbe essere minacciata dall’avanzata della piantagione di Phyllostachys edulis.

In attesa di risposta

Quarantatré ettari sono già stati piantati. Per continuare a piantare, l’azienda attende la risposta della Valutazione di incidenza ambientale presentata alla Provincia di Grosseto, che dovrebbe arrivare in autunno. Dal momento che la piantagione è vicina a un sito Natura2000, è stata richiesta la Valutazione di Incidenza (Vinca). Questo procedimento è necessario per qualsiasi attività che possa avere effetti negativi su habitat e specie di interesse comunitario presenti nei siti.

alessandro chiarucci

Il professor Chiarucci percorre la regione di Castiglione della Pescaia raccontando la fauna e la flora locali.

diaccia botrona

Un esemplare di una specie locale, il Limonium narbonense Mill.

«Abbiamo coinvolto tre diverse Università per raccogliere i dati da presentare alla Provincia», precisa Mauro Lajo, uno dei fondatori della holding. «Quando abbiamo messo a dimora le prime piante di  bambù gigante eravamo fuori dall’area parco. Si trattava di un’area agricola, senza alcun vincolo».

La varietà utilizzata nella piantagione di Castiglione della Pescaia è Phyllostachys edulis, conosciuto anche con il nomi di Phyllostachys pubescens o Moso. «Tra le 56 specie di Phyllostachys è la più complessa da coltivare», prosegue Lajo. «Questa varietà è molto delicata e può presentare alcune criticità soprattutto nei primi anni, ma si tratta di una pianta che ha poi una grande resa. Quando noi realizziamo una foresta, piantiamo 1.200 piante per ettaro. Grazie poi allo sviluppo dei rizomi, da 1.200 si arriva a 30.000 piante per ettaro. Sono tutte piante cresciute in italia, e non sono OGM».

foreste di bambù

Nella zona di Grosseto si possono osservare alcune piantagioni di bambù che si stagliano in contrasto con il caratteristico paesaggio locale.

Controlli e piani

Secondo Lajo, le critiche al bambù sono pregiudizi. «Anche il pomodoro è una pianta non autoctona», dice. «I nostri campi sono circondati da un fossato per prevenire la propagazione dei rizomi. Lavoriamo con enti di ricerca e università e garantiamo controlli scrupolosi lungo tutta la filiera produttiva. Per il contenimento delle piante impieghiamo un protocollo agroforestale proprietario, sviluppato insieme a due università italiane e creato in conformità con i principi più all’avanguardia dell’agricoltura biologica e simbiotica». 

Lajo afferma anche che «la coltivazione è gestita con un preciso piano agronomico, che prevede, tra le varie pratiche, il diradamento di un terzo della piantagione ogni anno, a partire dall’inizio della produzione del bambuseto».
Attualmente, la società coltiva 137 ettari di bambù in 11 foreste: una in Piemonte, due in Lombardia, quattro in Emilia Romagna e altrettante in Toscana.

caldana

Vista dall’alto della città storica di Caldana (GR). Qui si può notare il tipico paesaggio toscano tra ulivi e vigneti.

Piantare bambù per generare crediti

Secondo le stime realizzate dalla società di consulenza a cui si è affidata il gruppo, un ettaro coltivato con Phyllostachys edulis maturo e gestito con cicli di taglio periodici assorbe annualmente 36 volte più anidride carbonica rispetto a un bosco misto di conifere e latifoglie. Il rapporto è di 275 tonnellate di CO2 per ettaro all’anno contro le 7,74 tonnellate per ettaro di un bosco con specie comuni. Ma il bambù dipende dalla manutenzione umana e, se non gestito, l’assorbimento di CO2 scende vicino a zero dall’ottavo anno in poi.

«In collaborazione con un’università italiana abbiamo studiato un algoritmo derivato, validato poi da RINA [un’azienda italiana specializzata in ispezioni e  certificazioni, nda.], che ci ha permesso di sviluppare un metodo che, già dal primo anno di piantumazione del bambù, permette di prevedere esattamente cosa accadrà nella foresta», spiega Lajo.  «Questo ci consente di contabilizzare l’assorbimento di anidride carbonica per i prossimi 30 anni. Grazie al lavoro del Politecnico di Milano, che ha studiato sia la parte aerea della pianta che quella sotterranea, è stato possibile verificare l’efficacia del bambù gigante nel processo di carbon farming. I ricercatori hanno sviluppato una tabella allometrica che parte da una certa quantità di carbonio e proietta i dati per un arco temporale di 30 anni. Attualmente, tutte e undici le foreste possono essere incluse nel calcolo e nella cessione dei carbon token». 

Lajo differenzia tra token e crediti. «I nostri token sfruttano i meccanismi della blockchain», precisa. «Questo permette all’acquirente di avere sempre sotto controllo quello che succede nel campo, ed evita che gli stessi crediti siano conteggiati e messi sul mercato più volte». 

I crediti prodotti in Italia dai bambù sono venduti sul mercato a un prezzo che oscilla tra 15 e 39 euro, a seconda della quantità. «A maggio abbiamo venduto i primi 300 token. Ma se li vendessimo a cifre dieci volte inferiori, come accade per i crediti generati da progetti in altre aree del pianeta, ne venderemmo certamente di più», conclude.

Castiglione della Pescaia

Residenti a pranzo sul lungomare di Castiglione della Pescaia. Il paese, destinazione turistica durante l’estate, è ancora molto tranquillo all’inizio della primavera.

Castiglione della Pescaia

Il porto di Castiglione della Pescaia si trova alla foce del fiume Bruna, nel Mar Tirreno. È un porto canale che viene utilizzato sia per l’attracco dei turisti che per le attività di pesca.

Una scorciatoia facile ed economica

I crediti emessi da progetti situati nei Paesi in via di sviluppo sono più economici, ma spesso impongono un costo elevato alle comunità locali. Deforestazione, aumento dei prezzi dei terreni agricoli e inquinamento sono solo alcune delle esternalità negative di questa nuova forma di sfruttamento, tanto che alcuni parlano già di carbon colonialism.

«Il coinvolgimento delle comunità locali è uno dei nodi centrali di questo business», spiega Benja Faecks, esperta di mercati globali del carbonio dell’organizzazione indipendente Carbon Market Watch. «Il rischio è quello di piantare una monocoltura che avrà effetti negativi sull’ecosistema circostante». In Estonia, ad esempio, stanno sorgendo ampie distese di betulle mentre il Portogallo è stato invaso dall’eucalipto.

ponte giorgino

Ponte Giorgino, costruito sul fiume Bruna di Castiglione della Pescaia e ideato da Gaetano Giorgini. L’idea di costruire il ponte munito di tre cateratte a bilico aveva la funzione di evitare che le acque dolci del fiume Bruna e quelle salate del mare si mescolassero.

Una delle critiche principali al mercato volontario dei crediti di carbonio è che questo sistema finanziario rappresenta una scorciatoia facile ed economica verso una neutralità climatica solo di facciata, limitando di fatto le azioni concrete per ridurre l’emissione di gas climalteranti. 

«Le nostre ricerche mostrano che in oltre il 90% dei casi i crediti di carbonio non rappresentano effettivamente una riduzione di una tonnellata di emissioni di CO2 come dovrebbero», aggiunge Faecks. «Se si decide di acquistare crediti di carbonio, è consigliabile destinare una parte dei fondi e investirli nei progetti ritenuti meritevoli, evitando però di dichiarare la neutralità carbonica poiché questa di fatto non esiste». 

LEGGI ANCHE: Cos’è e come funziona il mercato volontario dei crediti di carbonio

Chi si occuperà degli alberi tra trecento anni?

Per essere realmente efficaci, questi progetti devono adattarsi ai ritmi lenti della natura, che contrastano con i ritmi immediati del mondo aziendale e del business.

«Quando si rimuove CO2 dall’atmosfera e la si immagazzina in un albero, è necessario conservarla nel suolo, negli alberi o nella biomassa per un minimo di duecento o trecento anni per ottenere un beneficio. Progetti che hanno una durata minore rischiano di non avere alcun vantaggio in termini di compensazione delle emissioni», prosegue Faecks. «Questo albero sopravviverà per i prossimi tre secoli? Chi ne è responsabile? Chi ne controlla la gestione? Questo meccanismo ci porta a riflettere su due temi principali: il passaggio della responsabilità per la gestione gli alberi alle generazioni future e la mancata opportunità di ridurre immediatamente le emissioni anziché procrastinare».

diaccia botrona

Un tipico paesaggio toscano, tra vigneti e olivi.

maremma

I residenti approfittano dei fine settimana di sole per praticare attività all’aperto e per fare i primi bagni nel mare della Maremma.

Il Registro Verra ha certificato anche altri progetti in Calabria e Lombardia, portati avanti da altre aziende, che prevedono l’uso del bambù, ma con una durata molto limitata: in alcuni casi, solo 32 o 40 anni. Per il progetto di Diaccia Botrona, invece, è stata stimata una durata di cento anni.
«Un periodo di accreditamento di 40 anni significa che il progetto potrebbe terminare dopo questo tempo, e il carbonio sequestrato potrebbe essere nuovamente rilasciato», spiega Faecks. «In tal caso, i crediti non sarebbero permanenti e non costituirebbero una compensazione per i combustibili fossili che sono stati impiegati. Come detto, il carbonio deve essere immagazzinato per almeno due o tre secoli affinché si possa avere un effetto positivo sul clima. In concreto, ciò significa che questi crediti non dovrebbero essere utilizzati per dichiarazioni di neutralità carbonica. Tuttavia, la decisione finale spetta all’acquirente».

 

Guardare al futuro

Inoltre, affinché  i benefici siano equiparabili alla riduzione delle emissioni, il legno delle piante tagliate deve essere utilizzato per la realizzazione di oggetti che abbiano una durata di almeno 35 anni. 

I recenti regolamenti europei indicano che il legno delle piante tagliate debba essere impiegato per realizzare oggetti duraturi, come ad esempio mobili, e non prodotti usa e getta o di breve durata, come posate o spazzolini. Così facendo, il carbonio immagazzinato nel legno rimane intrappolato per almeno 35 anni, bilanciando le emissioni. Tuttavia, stimare con certezza la durata effettiva di questi manufatti è difficile, e questo introduce incertezze sull’effettivo vantaggio ambientale nel lungo termine.

Rimane infine una questione etica: scambiare crediti per raggiungere l’obiettivo della compensazione, il cosiddetto net zero, è una facile scappatoia che ci consente di evitare una seria riflessione sui nostri modelli di produzione e consumo, trasferendo queste decisioni e le relative conseguenze, ancora una volta, alle generazioni future.

grosseto

Simbolo della cultura toscana, il cipresso (Cupressus sempervirens pyramidalis) fu diffuso dagli Etruschi e poi dai Romani.

Questa inchiesta è parte della serie "Cashing In on Future: Carbon Credit Market's Footprint in Europe". Il progetto è sostenuto dal fondo per il giornalismo investigativo Journalismfund Europe. Gli articoli, a cura di Kristel Härma, Marta Frigerio, Miglė Krancevičiūtė e Serdar Vardar sono stati pubblicati da Äripäev in Estonia, dal centro di giornalismo investigativo Siena in Lituania e da Deutsche Welle in Germania.

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  • Marta Frigerio

    Marta Frigerio è giornalista indipendente. È anche formatrice e collabora con redazioni internazionali per lo studio e la realizzazione di progetti giornalistici.
    Dal 2022 è direttrice di RADAR Magazine.
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    Natália Alana è fotografa e photo editor; si occupa di ambiente, politica e relazioni umane. I suoi lavori sono stati pubblicati da testate internazionali tra cui New York Times, National Geographic, Nature e altre. Brasiliana di San Paolo, attualmente vive a Roma.

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