Ci sono storie che hanno il sapore della vittoria. Storie che se ci guardi dentro vedi il buio dell’estinzione e la tenacia della rinascita. Con la rubrica “Per un pelo”, la naturalista e giornalista scientifica Francesca Buoninconti ci racconterà alcune delle più incredibili storie di animali scampati all’estinzione grazie a visionari progetti di conservazione.
Ci sono animali a cui siamo legati sin dalla notte dei tempi: sono diventati tramite col divino, specchio di pregi e difetti della nostra specie. Sono stati amati, odiati, venerati, perseguitati. La loro è una storia di alterne vicende, di declini e rinascite. Questa è la storia di uno degli uccelli più maestosi del pianeta, una sentinella degli ecosistemi acquatici che nel XX secolo ha rischiato di lasciarci le penne a causa del più noto e famoso dei pesticidi, il DDT. In questa ottava puntata di Per un pelo, vi racconto come l’aquila di mare testabianca (Haliaeetus leucocephalus) ha ripreso a volare sui cieli nordamericani, anche grazie al lavoro di una grande biologa e comunicatrice: Rachel Carson.
Una danza nel vuoto
Fischi acuti e striduli fendono l’aria, due ombre corrono veloci sull’acqua. Sono le aquile di mare testabianca: due metri e mezzo di apertura alare color cioccolato. Si volano incontro rapide, mentre con le punte delle remiganti suonano l’aria. D’un tratto, una si gira e con gli artigli afferra l’altra per le zampe. Sembra l’inizio di un combattimento, e invece è una danza d’amore acrobatica. Così avvinghiate, con gli artigli intrecciati, precipitano nel vuoto vorticosamente come acrobate, capovolgendosi continuamente in un mulinello senza fine: le zampe gialle strette le une nelle altre, le ali spiegate, i corpi protesi dalla forza centrifuga del moto. Finché, arrivate raso terra, quando tutto sembra far presagire un grosso schianto, lasciano la presa e tornano a volare maestose.
È così che le aquile di mare testabianca scelgono i propri compagni di vita: un rituale che deve aver suscitato un senso di meraviglia e stupore anche nei popoli nativi americani.
Animale totemico
Considerata da sempre tramite con il divino, simbolo di forza, libertà e coraggio, l’aquila di mare testabianca è uno degli animali totemici di molte culture dei nativi americani. Sono sue le penne utilizzate per tessere i famosi copricapi, che incorniciano il volto di guerrieri e grandi capi indiani, che più volte hanno preso in prestito il suo nome.
Diffusa in tutto il Nord America, l’aquila di mare testabianca ha affascinato e sedotto non solo i nativi americani, ma anche i coloni, tanto che nel 1782 è diventata simbolo nazionale dei neo-proclamati Stati Uniti d’America. All’epoca, dall’Alaska al nord del Messico, si contavano oltre 100.000 nidi e 500.000 aquile di mare. Eppure in meno di un paio di secoli, precisamente nel 1963, quei nidi sarebbero diventati appena 417. Colpa della caccia e della perdita di habitat, operata sin dall’inizio dai primi coloni e diventata sempre più impattante. Ma anche e soprattutto di un nemico più insidioso, sopraggiunto all’inizio del Novecento: il pesticida più famoso di sempre, il DDT.
Un nido da record
Coste chilometriche senza troppo disturbo antropico, fiumi, paludi e grandi laghi: sono questi gli ambienti d’elezione della più grande aquila pescatrice d’America. A patto, però, che nei pressi ci siano anche ampie foreste vetuste di conifere e latifoglie dove costruire un nido da Guinnes dei primati, largo fino a tre metri e profondo in media 4 metri. L’aquila testabianca di mare costruisce il nido più grande del Nord America, che riutilizza e “ristruttura” anno dopo anno, aggiungendo nuovi rami. In genere costruisce il nido tra i 15 e i 30 metri dal suolo, in zone con ottima visibilità.
Il nido, però, è spesso anche la scena di un efferato fratricidio: le 2 uova bianche e sferiche vengono deposte – e quindi si schiudono – con qualche giorno di differenza. E il secondo nato, spesso, non è altro che una riserva di cibo per il fratello maggiore, più grande e forte, che lo ucciderà a suon di beccate e poi lo divorerà.
L’aquila di mare testabianca, una cacciatrice spettacolare
Per sfamare il giovane aquilotto, che può prendere peso al ritmo di 170 grammi al giorno, i genitori si alternano al nido, portando al famelico figlio per lo più pesci – d’acqua dolce o salata – e uccelli acquatici. Trote, salmoni, carpe, lucci, spigole e pesci gatto che l’aquila di mare testabianca cattura lanciandosi in picchiata e affondando gli artigli nell’acqua con un poderoso tuffo. Altrettanto spettacolare e ricca di finti agguati, che scatenano il fuggi-fuggi generale, è la caccia agli uccelli marini. Svassi, germani e folaghe americane sono le vittime predilette. Ma oltre alle 300 specie di pesci e uccelli che finiscono tra i suoi artigli dotati di spicole, ci sono anche mammiferi come lepri, roditori, procioni e carcasse di balene e altri cetacei spiaggiati.
L’aquila di mare testabianca è di fatto anche una grande opportunista. Spesso si procura le sue prede con disonestà: le ruba ad altri rapaci, come i falchi pescatori, inseguendoli e mobbandoli, finché mollano l’osso. È di fatto una tecnica di caccia “alternativa”, una sorta di parassitismo alimentare, chiamato cleptoparassitismo.
Eppure c’è chi osa sfidare la regina dei cieli, elegante e possente cacciatrice, ladra astuta e bulla. Le stesse vittime – dalle cornacchie ai procioni – per non parlare dell’orso nero, abile scalatore, attentano spesso ai nidi, cercando di rubare e mangiarne le uova.
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La persecuzione dell’aquila testabianca
La fama di provetta pescatrice e cacciatrice è però costata cara all’aquila di mare testabianca. Da tramite col divino nelle culture dei nativi, è presto diventata acerrima nemica dei pescatori e dei cacciatori di uccelli acquatici, accusata di soffiar loro il bottino, di scippare agnelli agli allevatori e perfino bambini alle famiglie. Ed è così che le dicerie hanno dato il via alla persecuzione di questo rapace.
In breve tempo il suo habitat è stato stravolto dalla cementificazione; le sue prede abituali sono diminuite a causa della pesca intensiva e della caccia indiscriminata. E le doppiette hanno fatto il resto: secondo quanto scritto nel 1930 da un ornitologo di New York, nei 12 anni precedenti sarebbero state uccise oltre 70.000 aquile calve nella sola Alaska.
Per circa un secolo la caccia è stata la principale causa del declino di questa specie, non solo per gli esemplari abbattuti a suon di fucilate, ma anche per l’intossicazione da piombo, il saturnismo. Questi animali all’apice della rete trofica, infatti, si nutrono anche di carcasse e animali non recuperati dai cacciatori, o delle viscere abbandonate da questi ultimi. E così finiscono per ingerire anche frammenti di pallottole al piombo, morendo intossicati.
Un declino inspiegabile
La persecuzione fu tale che, entro gli anni Trenta del secolo scorso, l’aquila di mare testabianca era già stata estinta a suon di fucilate in molti stati, tra cui South Dakota, Nebraska, Iowa, Indiana, Illinois, Arkansas, che costituivano una vera “valle della morte” per questo rapace. A ben poco servì il Bald Eagle Protection Act, emanato nel 1940, per proibirne l’uccisione, la vendita o il possesso. Nei successivi 20 anni, la popolazione di aquila di mare testabianca continuò il suo velocissimo – e apparentemente inspiegabile – declino.
Negli anni Cinquanta, infatti, era ormai sparita anche da Vermont, New Hampshire, Massachusetts, Connecticut a Nord-Est; e a Sud-Est da Alabama e Mississippi. In moltissimi altri stati – dalla Louisiana alla Pennsylvania, passando per North e South Carolina, fino ad Arizona e Colorado – i nidi di aquila si contavano sulle dita di una sola mano. Ormai in tutti gli Stati Uniti ne restavano poco più di 400 e nessuno si capacitava del perché.
Manna dal cielo?
A cambiare per sempre le sorti dell’aquila di mare testabianca e a salvarla dal baratro dell’estinzione fu un saggio-capolavoro pubblicato il 27 settembre del 1962: Silent Spring, “Primavera silenziosa”, manifesto antesignano dei movimenti ambientalisti, pietra miliare della divulgazione. L’autrice era la biologa Rachel Carson, da anni impegnata in un fitto lavoro di ricerca e indagini sull’impatto ambientale di pesticidi ed erbicidi. Carson riuscì finalmente a identificare il responsabile del rapido e finora inspiegabile declino delle aquile: il DDT, uno dei pesticidi più in voga allora, presentato come una “manna dal cielo” per i contadini, e rivelatosi uno dei più letali composti chimici mai prodotti.
Erano gli anni del dopoguerra. Come scriveva la stessa Carson, dal 1945 erano stati creati più di 200 composti chimici «per estirpare erbacce e sterminare insetti, roditori e altri organismi che vengono considerati “pestilenziali”. Da allora queste irrorazioni, polverizzazioni e vaporizzazioni vengono praticate universalmente nelle colture agricole, nei giardini, nelle foreste e nelle abitazioni; e si tratta di prodotti non specifici, che sterminano tutti gli insetti, “buoni” e “cattivi”, che impediscono agli uccelli di cinguettare e ai pesci di guizzare nei fiumi e nei torrenti, che coprono ogni foglia di una pellicola mortale e si depositano al suolo. Tutto ciò nell’unico intento di distruggere poche specie di gramigna e di parassiti».
La frittata è fatta
Carson è chiarissima: con il DDT e gli altri pesticidi si uccidono gli animali indesiderati, ma anche quelli “buoni”. In pratica, tutti: insetti, topi, rane, pesci, uccelli. Non a caso parla di fall-out chimico, paragonando questa contaminazione a quella radioattiva, che più catturava l’attenzione dell’opinione pubblica in quegli anni. E capisce – mettendo nero su bianco – un punto chiave: il DDT biomagnifica, cioè si accumula nei tessuti e aumenta di concentrazione man mano che risale la catena alimentare, creando grossi problemi anche ai predatori all’apice della rete trofica. Come l’aquila di mare testabianca, che di fatto da almeno due decenni si nutriva di pesci contaminati dal DDT.
Più che una manna dal cielo, il DDT era una piaga che metteva a rischio interi ecosistemi: per esempio – spiega Carson – l’irrorazione del pesticida nelle foreste di abete rosso attorno al fiume Miramichi, nel tentativo di salvarle dal tarlo Choristoneura fumiferana, aveva provocato la morte delle migliaia di salmoni che risalivano il fiume ogni anno. Mentre per gli uccelli, aquila compresa, gli effetti erano più subdoli e meno visibili: l’insetticida non era letale per gli adulti, ma neutralizzava del tutto la loro capacità riproduttiva.
Il DDT interferiva con il metabolismo del calcio, e quindi con lo sviluppo del guscio dell’uovo, rendendo questi uccelli sterili o incapaci di deporre uova sane. Le uova di aquile di mare testabianca infatti avevano il guscio troppo sottile per sopportare il peso di un adulto in cova e quindi si rompevano. La frittata – è il caso di dire – era fatta.
Grazie, Rachel Carson
Il lavoro della Carson ebbe un impatto dirompente sull’opinione pubblica, nonostante i numerosi attacchi sessisti alla sua persona. Era il 1963 e negli Stati Uniti d’America restavano solo 417 nidi di aquila di mare testabianca. Nel 1967 la specie venne dichiarata ufficialmente minacciata di estinzione e inserita nell’Endagered Species Protection Act. Ma la vera svolta arrivò nel 1972: il DDT – principale causa del declino del rapace, e di moltissime altre specie – venne messo al bando in tutti gli Stati Uniti. Fu una prima fondamentale vittoria per la tutela della biodiversità, e presto il DDT venne vietato anche in Europa e in molti altri paesi. Rachel Carson, però, non vide mai i risultati del suo magnifico lavoro: morì nel 1964 per un tumore al seno.
Con la messa al bando del DDT, cominciò la lenta ripresa della popolazione di aquila di mare testabianca. Le quantità di DDT disperso nell’ambiente cominciarono lentamente a diminuire. Nel frattempo, venne avviato un fitto programma di salvataggio per il simbolo degli Stati Uniti. Praticamente in tutti gli stati, anche in quelli dove la presenza della specie non era mai stata registrata, ovunque ci sia un habitat idoneo, vennero installati nidi artificiali e telecamere per aumentare l’empatia delle persone verso la specie. E oggi, secondo di dati dell’U.S. Fish & Wildlife Service, sui cieli nordamericani sono tornate a volare oltre 310.000 aquile di mare, con oltre 70.000 nidi in cui ogni anno spiccano le grandi uova bianche, con il guscio duro al punto giusto.
Un’altra misteriosa malattia
Negli anni Novanta, mentre in tutti gli Stati Uniti impazzavano progetti di conservazione e turisti e fotografi facevano a gara per immortalare e osservare il ritorno dell’aquila di mare testabianca, in Arkansas cominciava un nuovo mistero. Tra il 1994 e il 1998 vennero trovate morte ben 70 aquile, colpite da una strada epidemia, definita “la piaga più mortale nella storia dell’osservazione degli uccelli”. Un’insolita – e mai osservata prima – malattia che generava lesioni cerebrali e provocava la morte di questi uccelli, che sembravano “ubriachi”. Il loro volo da possente si faceva incerto, andavano a sbattere, barcollavano in aria, muovevano le ali in modo scoordinato. Cos’era, adesso, a minacciare questa specie?
Il mistero è rimasto tale per 25 anni, fino al 2021, quando un team internazionale di ricercatori dell’università della Georgia e della Martin Luther University, forte dell’insegnamento di Rachel Carson, ha risolto l’arcano. Negli stessi laghi dov’erano state rinvenute le carcasse di aquile, anche le folaghe americane – grossi e panciuti uccelli acquatici, prede delle aquile in queste zone – presentavano le stesse lesioni cerebrali e morivano in grandi numeri. C’era dunque qualcosa che, come il DDT, risaliva la catena alimentare e biomagnificava. Ma cosa?
Nuove interazioni
Una serie di indagini hanno portato alla soluzione. A provocare questa malattia, battezzata mielinopatia vacuolare, è una neurotossina prodotta solo in presenza di bromo nell’acqua. Questa neurotossina viene prodotta da una specie di cianobatteri appena scoperta, che a sua volta si sviluppa sulla pianta acquatica aliena e invasiva Hydrilla verticillata, diventata pasto principale delle folaghe in quei laghi. Dunque le folaghe mangiavano l’Hydrilla, ricca di cianobatteri che producevano questa neurotossina, e si ammalavano. E le aquile, nutrendosi delle folaghe moribonde che catturavano più facilmente, si intossicavano a loro volta.
Lo snodo centrale di questa storia è che i cianobatteri – chiamati poi Aetokthonos hydrillicola, cioè “assassino di aquile che cresce su Hydrilla” – producono la neurotossina responsabile della mielinopatia vacuolare solo in presenza di bromo: la tossina ha infatti nella sua struttura 5 atomi di bromo. E l’ipotesi più accreditata è che il bromo provenga – per una macabra coincidenza – dagli stessi erbicidi utilizzati per eliminare l’Hydrilla verticillata, che contengono appunto bromuri. Ancora una volta, bisogna ascoltare il monito di Rachel Carson: servirà trovare un nuovo modo per eliminare la pianta aliena invasiva, senza mettere a repentaglio il futuro dell’aquila di mare testabianca.
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