La sfida del cambiamento climatico per la biodiversità

Per far fronte alle temperature in aumento, specie animali e vegetali si spostano verso zone più fredde. Anche chi si occupa di tutela dell'ambiente deve adattarsi a queste nuove condizioni, a volte con scelte dolorose: per esempio, decidere su quali specie concentrare gli sforzi.

5 minuti | 23 Luglio 2021

Testi di Emiliano Mori
Il cambiamento climatico è un evento su scala globale destinato a modificare irreversibilmente la vita sulla Terra per almeno qualche secolo. La crisi planetaria non colpisce solamente l’umanità, principale responsabile del fenomeno, ma la biodiversità nel suo complesso. Per esempio, la febbre planetaria riduce la copertura forestale alle altitudini più basse a vantaggio dell’arbusteto, e sposta verso altitudini maggiori il limite della vegetazione arborea oltre il quale si estendono le praterie alpine e il manto nevoso perenne.

La conservazione non può ignorarne le conseguenze: i progetti di ripristino degli ecosistemi alle condizioni pre-industriali o la reintroduzione di specie in siti divenuti nel frattempo non più idonei alla loro sopravvivenza sono utopici. Il cambiamento climatico può costringere inoltre a prendere decisioni dolorose, come la scelta delle specie animali o vegetali sui quali concentrare gli sforzi, magari a discapito di altre. Nel mese di aprile, il National Park Service statunitense ha aggiornato le proprie linee guida per affrontare la crisi climatica dedicate ai gestori dei parchi.

Tra queste, spicca il “resist, accept or direct” cioè resistere, accettare o guidare [il cambiamento] il quale sottolinea la necessità di valutare sforzi e investimenti per preservare la biodiversità, oppure valutare i rischi legati a determinati animali, o ancora comprendere quali potranno sopravvivere in habitat mutati, il tutto promuovendo il messaggio che purtroppo «non sarà possibile salvaguardare tutte le risorse, i processi, i beni e i valori del parco nella loro forma o contesto a lungo termine».

Risorse più scarse

Alcuni effetti del cambiamento climatico sono molto evidenti sulle montagne, in particolare in quelle che raggiungono altitudini inferiori, che potrebbero vedere scomparire le praterie d’altitudine nei prossimi 50 anni. Le montagne includono infatti ambienti soggetti ad ampie variazioni stagionali, che richiedono adattamenti particolari per le specie che vi abitano. La dinamica della popolazione di molte specie di mammiferi di montagna è in gran parte determinata dalla disponibilità di risorse alimentari di qualità.

Per esempio, il riscaldamento globale sta riducendo drasticamente l’areale della volpe artica che arretra sempre più verso il polo nord, a vantaggio invece della volpe rossa, suo competitore, che conquista nuove aree di anno in anno, favorita dalla scomparsa dei ghiacciai. Una situazione simile a quella che vede accrescersi la competizione tra volpe rossa e volpe artica si osserva anche sulle nostre Alpi tra lepre europea e lepre variabile, con la prima che sta conquistando nuovi territori, relegando la seconda ad altitudini sempre maggiori e minacciandone l’integrità genetica attraverso ibridazione.

Sempre meno neve

L’aumento delle temperature invernali sta facendo sì che le precipitazioni nevose in quota siano sempre meno e che quindi il loro scioglimento risulti anticipato rispetto ad alcune decine di anni fa. Il fenomeno ha ridotto la sopravvivenza invernale di quelle specie, come la marmotta, per le quali l’isolamento termico prodotto dal manto nevoso al suolo riduceva la mortalità giovanile durante il letargo nelle tane sotterranee. Di conseguenza, un minor numero di subadulti che condividono la tana nell’inverno successivo potrebbe comportare una peggiore termoregolazione, inficiando anche fortemente sulla sopravvivenza delle colonie.

Le montagne includono ambienti soggetti ad ampie variazioni stagionali, che richiedono adattamenti particolari per le specie che vi abitano.

Uno studio condotto da Sandro Lovari sul camoscio appenninico, specie endemica dell’Appennino, ha mostrato come, dagli anni ’70 del ‘900, l’aumento di 2°C della temperatura, soprattutto in inverno e in primavera, abbia anticipato di quasi un mese l’inizio del green-up nelle praterie appenniniche a minore altitudine, riducendo la copertura della vegetazione pascolata dal camoscio e dunque la sopravvivenza dei piccoli.

Sempre più in alto per cercare cibo 

Modelli predittivi suggeriscono che un ulteriore aumento della temperatura potrebbe alterare ancora di più la distribuzione delle specie vegetali di cui il camoscio appenninico si nutre. A differenza di altre specie di montagna, il camoscio appenninico non mostra adattamenti compensativi e questo avrà conseguenze nefaste in particolare per le popolazioni più di bassa quota, che faticheranno a trovare risorse alimentari di qualità tali da poter garantire la sopravvivenza dei giovani.

Analogamente, in un recente studio di Paola Semenzato e colleghi, è stato osservato come le femmine di stambecco sulla Marmolada, che durante l’estate si spostano ad altitudini maggiori alla ricerca di risorse più nutrienti, tendono a ridurre l’attività diurna sopra ai 14°C come comportamento compensatorio, muovendosi soprattutto nelle ore crepuscolari. Di solito questo non si osserva nelle madri coi giovani dell’anno, meno adattati a muoversi in assenza di luce. Pertanto, anche per lo stambecco, che a differenza del camoscio presenta comportamenti adattativi verso il cambiamento climatico, ulteriori aumenti di temperatura potrebbero comportare rischi per la sopravvivenza delle popolazioni.

Adattarsi al cambiamento climatico

Nemmeno le aree di pianura sono esenti dagli effetti del cambiamento climatico. In molte zone del pianeta, le piogge sono aumentate in frequenza e intensità, mentre altre, anche vicine geograficamente, stanno inaridendo. Ciò ha effetti soprattutto sulle popolazioni di alcuni anfibi, come l’ululone dal ventre giallo e la rana temporaria, che trovano sempre meno siti in cui riprodursi, con conseguenti estinzioni locali.

La sopravvivenza dei pulcini dei fasianidi e tetraonidi [classificazioni che includono uccelli come il fagiano, la pernice e il gallo cedrone, ndr] nelle prime settimane di vita è determinata dalla quantità di insetti, che dipende a sua volta da livelli di temperatura e umidità. Inoltre, la vegetazione erbacea, che richiede un determinato livello di precipitazioni a inizio primavera (o la fusione delle nevi invernali), consente di nascondere efficacemente i nidi agli occhi dei predatori. La siccità primaverile, dunque, limita sia il successo riproduttivo sia la sopravvivenza di molti pulcini e potrebbe essere tra i fattori responsabili dell’estinzione delle popolazioni di starna nell’Italia centrale.

Se da un lato dovremmo rassegnarci a perdere alcune specie, dall’altro la ricerca sulla fauna dovrà adattarsi

alcune specie scompariranno, altre si adatteranno

Diversamente dai cambiamenti climatici del passato, quello in corso è profondamente influenzato dall’essere umano che modifica ecosistemi e paesaggio, spesso irreversibilmente. La Natura opera in modo imperscrutabile e, pertanto, non è possibile arrivare a conclusioni generali sul tasso di estinzioni, né fare previsioni che siano al 100% attendibili.

Nonostante ciò, se da un lato dovremmo rassegnarci a perdere alcune specie, dall’altro la ricerca sulla fauna dovrà adattarsi, trovando soluzioni gestionali volte a minimizzare i danni. Sicuramente nel lungo periodo tutte le specie beneficerebbero della riduzione delle emissioni, mentre nel breve termine la messa in atto di miglioramenti ambientali (ad esempio la gestione dei corpi idrici in alta montagna e la promozione degli allagamenti delle praterie alpine) potrebbe fornire un incremento di risorse alimentari di alta qualità sia per gli insetti sia per i grandi erbivori, con effetti a cascata su tutta la catena trofica.

LE NEWSLETTER DI RADAR

Le nostre newsletter sono come il resto dei nostri articoli: sono curate, attente ed escono solo quando serve (quindi non vi riempiremo la casella della posta di spam). Iscriviti per riceverle gratis.

Solar

Ogni due settimane, parliamo delle soluzioni per affrontare la crisi climatica.

Newsletter Mensile

Una volta al mese, gli aggiornamenti sugli articoli in uscita e i nostri progetti.

  • Emiliano Mori

    Emiliano Mori è ricercatore presso l’Istituto di Ricerca sugli Ecosistemi Terrestri del CNR a Sesto Fiorentino. Il suo settore di ricerca è la biologia della conservazione e in particolare per le problematiche connesse alle specie introdotte. È inoltre socio fondatore e vicepresidente di «Successione Ecologica», un’associazione nata con l’obiettivo di promuovere lo scambio culturale e scientifico tra i giovani che operano nel campo della biologia ambientale, dell’ecologia e delle scienze naturali.

Correlati

granchio blu

C’è ancora il granchio blu?

A più di un anno dall’inizio dell’emergenza, il meccanismo per pescare e vendere il granchio blu non sta funzionando. A fronte di una politica che non guarda al futuro, gli allevatori di vongole sperimentano sistemi di difesa per non perdere tutto.

attivismo mamme no pfas

I tanti volti italiani dell’attivismo contro i PFAS

Nel corso degli anni, in Italia è cresciuto un articolato movimento di attivismo contro la contaminazione da PFAS. Un insieme di gruppi e associazioni che hanno ottenuto risultati concreti e oggi cercano una coesione.

rifiuti plastici

Il colonialismo dei rifiuti esportati all’estero

Rifiuti difficili da riciclare vengono spediti dall'Italia e l'Europa all'estero, a volte con etichettature fraudolente. Un traffico (lecito e illecito) che esternalizza i nostri costi ambientali e sociali, in un nuovo colonialismo dei rifiuti.

scienziati attivisti

Dare l’allarme non basta più

Una nuova generazione di scienziati e scienziate ha abbracciato l'attivismo per il clima e nuove visioni politiche. Con l'idea che limitarsi a dare l'allarme sui dati della crisi climatica non abbia funzionato.