OPINIONI
«Che cosa spinge uno scienziato […] a scrivere i suoi articoli, a costruire i suoi oggetti di studio, a occupare differenti posizioni accademiche? Che cosa lo induce a spostarsi da un oggetto d’indagine all’altro, da un laboratorio all’altro, a scegliere questo oppure quel metodo, questi o quei dati, questa o quella forma stilistica» per rendere pubblici i risultati del suo lavoro? Così, all’incirca, si chiedeva Bruno Latour in uno dei suoi testi più stimolanti, quel Laboratory Life con il quale nel 1979 lo studioso francese aveva reso conto del lavoro svolto in veste di “antropologo della scienza” presso il laboratorio di neuroendocrinologia del Salk Institute, all’Università di San Diego.
L’idea del tutto inedita al cuore di Laboratory Life era di applicare i metodi dell’indagine etnografica alla vita quotidiana dentro un laboratorio scientifico. Non più popolazioni “primitive” di cacciatori-raccoglitori sotto la lente dell’antropologo, bensì ricercatori, tecnici, scienziati còlti nella giornaliera interazione con provette, macchinari, data-set, mense universitarie, colleghi e riunioni.
Laboratory Life consente a Latour di muovere i primi passi verso una teoria della costruzione dei fatti scientifici (The social construction of scientific facts è, appunto, il sottotitolo della prima edizione del volume, poi emendato in The construction). Una teoria che mette in luce l’intreccio di istanze politico-sociali-tecnologiche e di conoscenza scientifica strictu sensu nelle dinamiche di produzione della scienza. Con la messa a fuoco di questo intreccio Latour non mira a criticare la scienza o a delegittimarne l’operato; piuttosto, intende mostrare come l’idea un po’ naïve per cui la scienza “pura” starebbe nella sua torre d’avorio, da una parte, e la viva società (o la cultura o la politica) dall’altra sia, appunto, niente più che un’idea ingenua.
Quali motivazioni guidano la ricerca scientifica?
Le domande che si poneva Latour alla fine degli anni Settanta sono ancora molto attuali, anzi attualissime, se consideriamo i maggiori problemi scientifici con i quali siamo chiamati a confrontarci oggi. Chi potrebbe obiettare che cambiamento climatico, crisi ecologica ed erosione della biodiversità siano tanto problemi socio-politici (conseguenza, per esempio, dei sistemi di produzione capitalistici della ricchezza e di scelte politiche) che problemi scientifici in senso stretto?
C’è però un altro senso della scienza contemporanea – non filologicamente latouriano ma comunque ispirato a Latour – e che ha sempre a che fare con le scelte degli scienziati, con le motivazioni che guidano il loro lavoro e il lavoro degli enti governativi e internazionali che li finanziano, con la selezione di questo o quell’oggetto di studio.
Da circa due anni, presso l’Università di Firenze, Leonardo Dapporto e Mariagrazia Portera dirigono il progetto Unveiling, che ha l’obiettivo di valutare con metodi quantitativi e qualitativi il ruolo della dimensione estetica nelle strategie di tutela della biodiversità, utilizzando come caso di studio le circa 500 specie di farfalle europee. Tra queste, alcune sono inserite nelle cosiddette liste rosse, liste che tengono nota delle specie a maggior rischio di estinguersi e che task force di scienziati aggiornano periodicamente.
Ma perché una specie viene inserita in lista? Quali criteri vengono considerati? A parità di rischio ecologico, accade forse che gli scienziati e le comunità di ricercatori preposti alla stesura delle liste siano più pronti e più motivati a studiare e poi tutelare le specie che risultano più belle e più attraenti?
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Specie carismatiche
Sappiamo che, a livello di pubblico generico, la bellezza di una specie animale può agire da elemento trainante nelle strategie di tutela, tanto che organizzazioni come WWF e Greenpeace, per esempio, utilizzano panda, delfini e orsi per le loro campagne di sensibilizzazione, e non ragni e coleotteri. Allo stesso modo, se consideriamo loghi e stemmi dei maggiori parchi nazionali italiani, troveremo moltissimi grandi mammiferi e qualche uccello, ma pressoché nessun invertebrato. Le specie carismatiche che possono più facilmente veicolare messaggi al largo pubblico sono per questo considerate specie bandiera dagli ecologi e conservazionisti.
Il primo documento ufficiale che si occupa del problema della conservazione degli invertebrati, cioè la Strategia europea per la Conservazione degli invertebrati pubblicata nel 2007, indica come principale ostacolo alla loro conservazione proprio la scarsa capacità degli invertebrati di suscitare empatia. Di conseguenza, il documento si pone come primo obiettivo quello di capovolgere questa percezione negativa. Un bel problema per la biodiversità globale, se pensiamo che meno del 5% degli animali ha la corda dorsale!
La Strategia europea per la Conservazione degli invertebrati indica come principale ostacolo alla loro conservazione proprio la scarsa capacità degli invertebrati di suscitare empatia.
Collezionisti di farfalle
Dal 2007 non molto è cambiato anche se, soprattutto negli ultimi anni, alcuni invertebrati sono stati promossi a specie bandiera, in primis le farfalle e le api. Forse insieme a qualche coleottero e poche libellule, infatti, le farfalle sono le uniche tra gli invertebrati a essere percepite come belle e per questo raccolte e collezionate da secoli in molte parti del globo.
Questo ha portato a un fortissimo squilibrio nella conoscenza dello stato di salute degli invertebrati. Infatti, le farfalle (che rappresentano meno del 10% di tutto l’ordine dei lepidotteri, perlopiù composto da falene) sono le specie per le quali esistono più valutazioni del rischio di estinzione in assoluto, tanto da essere utilizzate dalla comunità europea come indicatore dello stato di salute degli insetti impollinatori (api selvatiche, bombi, ditteri sirfidi).
Questo sbilanciamento dei dati raccolti sulle farfalle da naturalisti e scienziati è sicuramente, almeno in parte, dovuto al loro aspetto, oltre che alla loro facilità di essere osservate in natura. Le informazioni su estinzioni locali o nazionali di farfalle hanno riempito le riviste scientifiche del settore a partire dagli anni ‘70, specialmente nel nord Europa.
Forse osservare impotenti il degrado e la perdita di specie come Lycaena dispar (estinta in Inghilterra e reintrodotta senza successo), o Maculinea arion (estinta in Inghilterra e reintrodotta in un sito), quindi assumere consapevolezza della possibilità di perdere delle “cose” così belle, ha colpito corde sensibili negli scienziati che si sono quindi attivati in difesa dei lepidotteri. Ovviamente – nello stesso periodo e forse negli stessi luoghi – andavano perse in silenzio molte popolazioni di millepiedi, ragni e piccoli coleotteri delle quali nessuno aveva preso nota.
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Svelare il ruolo della bellezza nella conservazione delle specie
Vi è quindi il dubbio che quel bias estetico nella conservazione, che fa sì che si proteggano con maggiori sforzi le specie più belle, abbia come motore primo non tanto le preferenze dei cittadini, degli enti politici e di quelli impegnati nella conservazione, ma proprio le attenzioni sbilanciate da parte degli scienziati verso alcuni organismi. Grazie a queste attenzioni gli scienziati potranno legittimamente documentare il loro effettivo declino e una reale necessità di azioni di conservazione che il legislatore non tarderà ad accettare, visto che si profila la perdita di una specie carismatica.
Unveiling si sta occupando proprio di chiarire meglio questo ruolo della bellezza nelle dinamiche di costruzione delle strategie di conservazione della biodiversità, considerando anzitutto un pubblico misto, cioè composto sia di esperti sia di non-esperti. A livello metodologico, i ricercatori stanno procedendo intrecciando i risultati di un test liberamente fruibile sul sito del progetto (la cui raccolta dati è ancora in corso) e di un’analisi delle immagini caricate dai cittadini nella nota piattaforma di citizen science iNaturalist. E infine, integrando a questi dati la frequenza delle varie specie di farfalle (belle e brutte) nella letteratura scientifica.
Grazie ai risultati di Unveiling, i ricercatori si aspettano di riuscire a individuare gli elementi, a livello percettivo, emotivo e cognitivo, che concorrono a formare l’esperienza “estetica” della farfalla, e in seconda battuta a quantificare l’effetto della bellezza nelle scelte e comportamenti di esperti e non-esperti interessati alla tutela della biodiversità.
Se davvero esiste un bias estetico, le specie più belle saranno quelle più studiate e dunque anche quelle sulle quali vengono pubblicati più articoli scientifici.
Un circolo vizioso
La questione specifica dell’impatto della bellezza sulle attività scientifiche di ricercatori e comunità di ricercatori, alla quale accennava Latour pur in termini non identici nel suo Laboratory Life, è da esplorare ancora in dettaglio per il futuro.
Che impatto ha, per esempio, la dimensione estetica nella scelta di un ricercatore di studiare una certa specie anziché un’altra? Se davvero esiste un bias estetico, le specie più belle saranno quelle più studiate e dunque anche quelle sulle quali vengono pubblicati più articoli scientifici. Di conseguenza, queste specie “belle” godranno con maggiore probabilità anche dei più consistenti finanziamenti nazionali e internazionali (per proseguire con il loro studio).
Le scelte estetiche, in questo senso, andrebbero ad auto-rinforzarsi, finendo per diventare un vero e proprio motore – spesso implicito – della costruzione scientifica. La ricercatrice in fisica Sabine Hossenfelder ha sostenuto qualcosa di simile in un libro recente, Sedotti dalla matematica. Come la bellezza ha portato i fisici fuori strada (Cortina, 2019). Secondo Hoffenfelder, l’idea di molti fisici contemporanei secondo cui le migliori teorie fisiche devono essere belle ed eleganti è tra i bias ai quali imputare l’assenza di reali progressi significativi in fisica teorica negli ultimi quarant’anni.