A Vicenza, gli abitanti cercano soluzioni all’inquinamento da PFAS

Cosa fare quando si vive in un’area contaminata da PFAS? Le persone mettono in campo strategie per avere accesso ad acqua e alimenti privi di PFAS, ma l’azione individuale spesso non basta.

16 minuti | 12 Novembre 2024

Testi di Anna Violato
Fotografie di Alessandro Mazza

Quando Elisabetta Donadello scoprì che il terreno del suo orto era inquinato dai PFAS, fu un duro colpo. La donna era consapevole di cosa fossero i PFAS dal 2015, quando le autorità locali avevano iniziato a organizzare incontri pubblici per informare – e rassicurare – gli abitanti della zona sulla scoperta dei PFAS nelle acque di falda. Donadello abita con il marito, due figli e due cani a Vicenza: la loro casa rientra nella zona arancione ed è ufficialmente appena fuori dal confine della zona rossa, le aree attenzionate dalle autorità venete per l’inquinamento da PFAS. 

Da subito, Donadello aveva smesso di usare l’acqua del suo pozzo, sospettando che fosse inquinata, e installato delle cisterne per raccogliere l’acqua piovana. Nonostante questo, però, le analisi parlavano chiaro: il terreno era comunque inquinato. Nelle stesse settimane, dopo anni di tentativi, Donadello era anche finalmente riuscita a ottenere che il sangue dei suoi figli venisse analizzato. Il loro sangue era tra i più gravemente contaminati tra i bambini della zona. «Fino a quel momento eravamo riusciti a reggere, ma quando ci hanno portato le analisi della terra dove coltivavamo, e anche quella era contaminata, abbiamo per la prima volta pensato di andarcene. Abbiamo pensato che, per quanti sforzi facessimo, non c’era modo di uscirne», racconta Elisabetta Donadello. «Ma quello che lasciavamo era troppo. Così abbiamo iniziato a pensare a come trovare delle soluzioni alternative».

In Veneto, lo stabilimento dell’ex Miteni di Trissino ha provocato un danno ambientale enorme, scaricando PFAS – una classe di milioni di sostanze perfluoroalchiliche, dette anche inquinanti eterni per la loro persistenza – in una delle falde acquifere più grandi d’Europa. Circa 350 mila persone vivono nell’area affetta dalla contaminazione. 

Oggi i dirigenti dell’azienda sono sotto processo. Negli ultimi 10 anni le autorità locali si sono mosse per limitare l’esposizione attraverso le acque potabili, installando filtri a carbone attivo negli acquedotti della zona. Ma il territorio e le persone che ci vivono sono ormai contaminati: se molti si voltano dall’altra parte e ignorano il problema, sono tante le persone e i gruppi di attiviste che cercano soluzioni per sopravvivere nonostante il disastro – e per cercare di superarlo.

LEGGI ANCHE: Cosa sono i PFAS e quali rischi comportano

 

Scelte di vita

Nelle zone del vicentino colpite dal problema PFAS, sono in molti ad avere un orto. Produrre i propri ortaggi e la frutta, mangiare le uova delle proprie galline, è una parte importante della vita di molte famiglie qui. Giovanna Dal Lago, una delle attiviste delle Mamme No PFAS, racconta di essersi trasferita a Lonigo in modo che anche i figli potessero fare esperienza dello stile di vita che aveva segnato la sua infanzia. «Io e mio marito avevamo scelto di ritornare a vivere in campagna per poter avere l’orto e le galline, e far crescere i bambini in un ambiente sano. Aver scelto, senza saperlo, di farli crescere in un luogo contaminato per me è stata una pugnalata», racconta Dal Lago.

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Pomodori irrigati con acqua piovana nell’orto di Elisabetta Donadello. Per l’irrigazione, Donadello non usa l’acqua del pozzo privato in quanto inquinata da alti livelli di PFAS. Vicenza, settembre 2024.

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Melanzane irrigate con acqua piovana nell’orto di Elisabetta Donadello. Vicenza, settembre 2024.

I PFAS passano nei tessuti umani soprattutto attraverso l’alimentazione: acqua e cibo. Bere da una fonte contaminata o mangiare spesso alimenti che contengono PFAS porta ad accumularne nel proprio corpo. Chi autoproduce ortaggi o ha animali da cortile quindi è particolarmente a rischio, perché mangia spesso alimenti prodotti nello stesso luogo, esposti alle stesse condizioni. 

Dopo la notizia che il terreno del loro orto era contaminato, Elisabetta Donadello e il marito Andrea Ferrari hanno pensato di far togliere lo strato di terra superficiale dal proprio terreno o passare a orti fuori suolo con terra pulita, analizzata in laboratorio. «Abbiamo fatto tutte le ipotesi possibili e immaginabili», racconta Donadello.

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Elisabetta Donadello e la sua famiglia hanno tre galline, di cui però non mangiano le uova: le analisi di un laboratorio specializzato hanno confermato il timore della contaminazione da PFAS. Vicenza, settembre 2024.

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I kiwi che crescono abbondanti sugli alberi al limitare dell’orto contengono PFAS, quindi la famiglia non li consuma. Vicenza, settembre 2024.

Pomodori, radicchio e PFAS

La coppia ha iniziato a collaborare con un gruppo di ricercatori dell’Università di Padova che sta portando avanti studi sui PFAS e sul loro assorbimento da parte delle piante. Oggi ospita sul suo terreno un orto sperimentale, che viene irrigato con acqua contaminata da PFAS proveniente dal pozzo. «Esistono tante piante diverse e tantissimi PFAS diversi», spiega Antonio Masi, professore associato di chimica agraria al Dipartimento di Agronomia dell’Università di Padova, che sta guidando gli studi sull’orto a casa di Elisabetta Donadello. «Quello che vediamo è che certe molecole vengono assorbite, altre no; alcune si fermano sulla radice, altre traslocano fino alle foglie o fino ai frutti. Dipende però dalla specie. Noi stiamo cercando innanzitutto di capire meglio questa dinamica. Una volta capito il meccanismo, la nostra speranza è provare a suggerire delle possibili soluzioni».

Per il momento, il gruppo di Masi ha studiato l’assorbimento di PFAS nei pomodori e nel radicchio, due colture molto diffuse negli orti del Veneto e del vicentino. «Nel pomodoro,  abbiamo visto che alcune molecole non arrivano nei frutti: per esempio, una molecola che si ferma nelle foglie è il PFOA [l’acido perfluoroottanoico, uno dei PFAS più pericolosi, che nel 2019 è stato bandito in Europa, nda]», spiega Masi. «Nel radicchio, invece, abbiamo visto che c’è un accumulo transitorio nelle prime fasi di crescita, poi – forse perché in quanto coltura invernale non viene irrigato – grazie alle piogge c’è un effetto di diluizione finale degli inquinanti», spiega ancora Masi. La prossima semina sarà di piselli, una leguminosa.

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Cisterne di raccolta dell’acqua piovana utilizzate da Elisabetta Donadello per irrigare l’orto. Vicenza, settembre 2024.

La ricerca su microrganismi per degradare i PFAS

L’orto-laboratorio a casa di Donadello è la sede di un altro esperimento: quello su una possibile tecnica per degradare i PFAS nel terreno. Giancarlo Renella, ordinario di chimica agricola dell’Università di Padova, spiega che per ora più che una soluzione concreta sta esplorando un’ipotesi di lavoro: la possibilità di far sviluppare, intorno alle radici della piante, gruppi di microrganismi che possano degradare i PFAS. Al terreno inquinato i ricercatori aggiungono biochar, un tipo di carbone vegetale che sta mostrando buoni risultati nell’assorbire i PFAS, immobilizzandoli nel suolo, e dunque nel ridurre gli inquinanti che finiscono nelle piante. È però un’arma a doppio taglio, perché il biochar diventa parte integrante del suolo e non ne può essere rimosso: c’è il rischio che, se non degradati, dopo qualche anno tutti i PFAS che sono stati “immobilizzati” nel biochar vengano rilasciati di nuovo nell’ambiente. 

«L’ipotesi scientifica che ci ha spinti ad avviare questa sperimentazione è che in queste condizioni, cioè in condizioni in cui il biochar trattiene i PFAS nella zona in cui si sviluppano le radici delle piante, i microrganismi, avendo a disposizione fonti di energia e in presenza di queste molecole, possono sviluppare capacità biodegradative», spiega Renella. La speranza, dunque, è che si sviluppino microrganismi che, moltiplicandosi, riescano a ridurre o eliminare i PFAS dai terreni inquinati. Alcuni studi mostrano che questo possa avvenire in laboratorio, ma finora nessuno è riuscito a replicare il risultato in campo. Per il momento è uno dei tanti aspetti dei PFAS che hanno bisogno di essere studiati di più, nella ricerca di soluzioni alla contaminazione.

Una manciata di biochar, il cui potenziale di assorbimento dei PFAS è oggetto di studio dei ricercatori dell’Università di Padova. Vicenza, settembre 2024.

Tentativi di mitigare, più che risolvere

Grazie alla collaborazione con i ricercatori, però, Elisabetta Donadello è riuscita a far analizzare i pomodori del suo orto che, nonostante fosse irrigato con acqua piovana, aveva suolo inquinato. Non erano contaminati. «Ci è sembrato di risorgere. I ricercatori dell’università ci hanno spiegato che anche il tipo di terreno fa la differenza. Abbiamo deciso di provare a mantenere il nostro stile di vita, con alcuni accorgimenti». Donadello e la sua famiglia non mangiano più i frutti dei loro alberi: le radici, troppo profonde, attingono sicuramente acqua contaminata. Anche le uova delle galline sono off-limits, ma continuano a tenerne alcune perché i bambini le adorano.

LEGGI ANCHE: In Veneto, un futuro senza PFAS sembra impossibile

La vita di chi è costretto a convivere con i PFAS è una serie continua di accorgimenti e di tentativi di mitigare il problema. Ma quello dei PFAS è un problema invisibile: senza una raccolta di un campione e la sua analisi in laboratorio, è impossibile sapere se l’acqua, il cibo o il nostro sangue sono contaminati. «Per i comuni cittadini, risulta infattibile stabilire di trovarsi in una condizione di esposizione», scrive lo psicologo Adriano Zamperini nel suo libro Violenza invisibile. Anatomia dei disastri ambientali. Le conseguenze psicologiche ed emotive della contaminazione ambientale invisibile sono profonde: una «prolungata esperienza angosciante» che può disgregare i rapporti personali e sociali. 

 

PFAS, soluzioni per un problema invisibile

Circondate da un problema invisibile, le persone che vivono nelle zone colpite tentano di superare il senso di impotenza in modi diversi: alcune, come Donata Albiero, cercando da un lato di esercitare un controllo continuo su quello che mangia e beve, e dall’altro di stimolare in altre persone l’azione contro i PFAS. 

Albiero, oggi in pensione, ha lavorato per quarant’anni nelle scuole, prima come insegnante e poi come preside, ed è sempre stata attiva nei movimenti ambientalisti. Vive assieme al marito Giovanni Fazio ad Arzignano, a poco più di sei chilometri dallo stabilimento della Miteni. «Quando la Regione ha fissato i criteri delle zone inquinate, con i colori, abbiamo scoperto che Arzignano non rientrava nelle zone a rischio. Il che ci ha insospettito, perché siamo vicino a Trissino». Il non essere in zona rossa o arancione significava anche essere esclusi dagli screening per la presenza di PFAS nel sangue. «Nel 2016 ho fatto delle analisi, privatamente. Scoprire di avere PFAS nel sangue mi ha attivata con più indignazione. Ho pensato: se io ho questi livelli, come stanno i miei concittadini?».

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Donata Albiero e Giovanni Fazio nello studio della loro casa. I due attivisti sono moglie e marito. Arzignano (Vicenza), settembre 2024.

Per reagire alla situazione, Albiero racconta di aver cercato «una modalità più rigorosa di vita. Ho cercato il più possibile di curare la mia alimentazione, per esempio scegliendo solo cibo biologico perché mi preserva da quei pesticidi che contengono PFAS». Ha eliminato dalla sua dieta alcuni cibi, come le vongole, particolarmente a rischio di accumulare sostanze inquinanti. E sceglie frutta e verdura prodotte lontane dalle zone più inquinate della regione. «Per bere, compriamo acqua in bottiglia di vetro che viene da una fonte a più di 1500 metri di altitudine, in montagna, in una zona priva di industrie», racconta Donata Albiero.

Albiero e il marito prendono invece l’acqua per cucinare dalle casette dell’acqua che il gestore locale delle acque, Acque del Chiampo, ha installato in paese. Per la coppia, è stata una vittoria personale: con la loro associazione ambientalista, CiLLSA, hanno fatto a lungo pressione per ottenere i punti di ritiro di acqua pulita. Ogni casetta è dotata di filtri a carbone e di un display che mostra i dati sulla presenza di PFAS nell’acqua (che deve essere pari a zero).

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Una cassa di bottiglie d’acqua nella dispensa della cucina di Donata Albiero e Giovanni Fazio. Arzignano (Vicenza), settembre 2024.

Una dieta senza PFAS

«Tutt’ora, a dieci anni dalla contaminazione, non esiste nessuna possibilità di fare una dieta sicuramente esente da PFAS», spiega Giovanni Fazio, che fa parte dell’Associazione Italiana Medici per l’Ambiente (ISDE). «Se oggi una donna in gravidanza, che sappiamo essere la categoria di persone che corrono maggiori rischi, volesse fare prevenzione alimentare, non potrebbe. Nessun cibo è segnalato come PFAS free: questo è il problema su cui assieme a un gruppo di esperti stiamo preparando un testo di legge di iniziativa popolare».

Nel 2022, la Regione Veneto ha approvato un accordo di collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità per svolgere dei monitoraggi sulla presenza di PFAS negli alimenti prodotti dalle aziende agricole nelle zone colpite dall’inquinamento della Miteni, dopo anni di richieste da parte degli attivisti. Grazie a una richiesta di informazioni inviata da Marzia Albiero, attivista contro i PFAS e direttrice della Rete Gruppi Acquisto Solidale di Vicenza, sappiamo che al momento è in corso il monitoraggio della presenza di PFAS negli alimenti di origine vegetale (cereali, frutta e ortaggi). I risultati di un primo studio sulla presenza di PFAS negli alimenti, basato su dati 2016-2017, avevano trovato che anche solo l’esposizione alimentare media della popolazione generale residente in aree non contaminate supera la dose settimanale tollerabile di PFAS (che nel 2020 è stata definita dall’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare in 4,4 nanogrammi per chilogrammo di peso corporeo alla settimana).

Nel frattempo, Donata Albiero e l’associazione CiLLSA hanno lavorato a un “manuale di difesa quotidiana contro i PFAS”, un prontuario che raccoglie informazioni sui prodotti e i processi industriali che impiegano queste sostanze, dai tessuti alle vernici agli imballaggi, comprese liste che individuano le aziende che si impegnano a non farne uso.

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Casetta dell’acqua che eroga acqua filtrata e monitora la presenza di PFAS. Arzignano (Vicenza), settembre 2024.

Sfiducia e attivismo

Difesa, accorgimenti, mitigazione: le parole di chi vive a contatto con i PFAS si tengono a una certa, scettica, distanza dall’ambito delle soluzioni. È la distanza di chi è logorato da anni di lotta contro una contaminazione che è invisibile, ma causata da persone in carne ed ossa. Il continuo scontro con istituzioni lente, sfuggenti, che non rispondono al bisogno di sapere prima di tutto se si è esposti alla contaminazione, ha reso persone come Elisabetta Donadello – che prima del problema PFAS non aveva esperienze di attivismo – assieme sfiduciate e agguerrite. L’immobilità delle autorità ha spinto molte e molti ad agire.

Oggi le attiviste del gruppo Mamme No PFAS guardano alla bonifica come l’unica vera soluzione. Nel giardino di Elisabetta Donadello c’è un grande salice. «Indovina quanti anni ha?», mi chiede. «Solo tredici anni. È sicuramente pieno di PFAS». I salici, alberi molto usati per la fitodepurazione, sono efficaci nell’assorbire e accumulare le sostanze inquinanti. Donadello dice di aver imparato molto in questi anni a contatto con il problema PFAS, in particolare a come agire collettivamente, di gruppo. «Partecipo agli eventi pubblici, vado a parlare nelle scuole. Si entra a far parte di un movimento. Voglio che quello che ho imparato sia utile a tante altre persone, qui».

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Elisabetta Donadello sotto il salice nel giardino di casa. Vicenza, settembre 2024.

Questo articolo fa parte dell’inchiesta "Food, Water, and PFAS: Investigating Grassroot Solutions to Chemical Pollution", sostenuta da Journalismfund Europe e condotta da RADAR Magazine, Ekonews (Repubblica Ceca) e Vers Beton (Paesi Bassi).

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