Penso.
A volte si evolvono, diventano qualcos’altro, cambiano forma, si alleggeriscono, somigliano a rituali, e non finiscono.
Eriche, pini marittimi, glicini, camelie, uliveti, vigneti.
Occhi aperti, occhi chiusi, vento in faccia, nuvole.
O meglio, non c’era la sua carne, ma la sua storia sì.
Arrivato a Taranto dopo una tappa da centocinquanta chilometri, mi sento stanco spettatore e attore di un momento mai incontrato prima.
Un bisbiglio, una brezza leggera mi attraversava il corpo.
Il mare alla mia destra.
L’Ilva e l’Eni alla mia sinistra.
La puzza di gasolio si mischia al profumo del mare.
I gabbiani fanno acrobazie sopra la mia testa come a volermi dire “Ehi! Siamo con te, anzi, siamo con voi!”
Continuo a pedalare incontrando due facce dell’Italia, quella dell’abbandono e quella della rinascita.
Quella della disperazione e dell’incertezza a causa della pandemia e quella della speranza per un futuro migliore.
Siamo rovina e meraviglia.
Taranto è rovina e meraviglia.
Povera Italia penso, povero mondo.
Vittima di se stesso.
Ho come l’impressione che se non troviamo alla veloce un modo per cambiare radicalmente il nostro modo di abitare la terra, saremo destinati ad inseguire un vaccino dopo l’altro.
Anche lui come me è legato alla puglia dalle sue radici e un unico sostanziale fatto differenzia le nostre esperienze; suo padre è ancora vivo e sta a Copertino.
Attraversiamo il lungomare meraviglioso, restaurato da poco e con grande piacere troviamo una corsia dedicata alle biciclette.
È lungo e sul fianco lato mare, insiste un giardino mediterraneo semplice, molto bello, di cui mi sono innamorato.
Finalmente arrivo in Via Crispi 104, scala F.
Un palazzone gigantesco, praticamente più palazzi uniti, a forma di ferro di cavallo, color arancio.
All’interno si trova un cortile che non vede quasi mai il sole, in cui entriamo incontrando le facce della gente un po’ stupite nel vedere due individui con bici e bagagli al seguito in questo periodo.
In un istante hanno capito che non eravamo di li.
L’aria è ferma, in sottofondo un vocio leggero, qualche lavatrice in funzione, bambini che giocano.
Più in lontananza rumori di marmitte di motorini truccati e qualche schiamazzo.
Mi trovo a casa di mio padre, penso, luogo dove è nato e cresciuto per i primi anni della sua vita.
Mi trovo qui solo con una bicicletta, le mie gambe e un amico.
Sono venuto per dirti che mi manchi, che avrei voluto imparare ancora da te, mi manca vederti con gli occhiali da sole, mi manca la tua ironia, il tuo affetto discreto.
Ti volevo bene sul serio e ti amavo, mi vantavo sempre con gli amici della tua Citroen BX grigia metallizzata come le sospensioni regolabili in altezza.
Mi vantavo di quanto fossi bravo a guidare, dei tuoi riflessi.
In qualche modo e misura ti vedevo come un supereroe.
Un supereroe con il quale facevo fatica a dialogare.
Negli anni in cui ci siamo conosciuti ero forse troppo esuberante, ma ero solo un bambino.
Ero carico a molla.
Ma cosa potevo farci?
Ero curioso e pazzo per la vita, cieco a volte rispetto a ciò che non mi interessava o che non capivo.
Lo sono anche adesso, ma forse con un pizzico di saggezza in più.
Pà, nella vita ho sempre cercato un posto caldo.
Un motivo.
Forse all’età di quarant’anni qualche risposta l’ho trovata, così come un posto al coperto.
Ma l’inquietudine che ho sempre avuto continua a farmi compagnia, a volte mi eleva, a volte mi uccide.
Pazienza.
Ho fatto più di mille chilometri per rincontrarti, ma ne farei altri centomila per poterti riabbracciare.
Mi viene da piangere e da ridere.
Rimango fermo.
Nessuno parla intorno, non c’è niente da dire.
Massimo sta anche lui in silenzio, è dentro al momento.
Siamo fuori dal tempo e dalla storia.
Siamo qui per esistere, per sprofondare dentro alla vita.
Ma anche nel tentativo disperato di far rinascere un morto.
Che forse in realtà non è mai davvero mancato.