L’insostenibile appetito della crescita demografica

Per sfamare una popolazione mondiale sempre più numerosa e urbana, si prevede che entro il 2050 la produzione di cibo dovrà aumentare del 70%. Una domanda difficile da soddisfare, anche per la mancanza di suolo da destinare agli allevamenti.

9 minuti | 12 Febbraio 2021

L’umanità si moltiplica e desidera più carne, per il suo gusto, per il suo valore nutritivo e per lo status che le è associato. Sfortunatamente, il 14,5% delle emissioni globali di anidride carbonica è dovuto proprio alla produzione di cibo di origine animale. Alle emissioni legate al trasporto di capi e di prodotti finiti, nonché dei mangimi, si sommano il metano proveniente dalla fermentazione intestinale, soprattutto dei ruminanti, e dalla gestione degli escrementi, e i composti azotati derivanti dal metabolismo delle proteine. L’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente statunitense ha stimato che un chilogrammo di carne d’agnello costa 39,2 chili di anidride carbonica, la stessa quantità che viene emessa viaggiando in auto per 146 chilometri. Questo calcolo comprende tutte le emissioni prodotte negli allevamenti, nei mattatoi e nelle aziende alimentari, nel trasporto, nei negozi e infine nelle nostre cucine. La carne, il formaggio e le uova hanno la maggiore impronta di carbonio; vegetali e legumi hanno un impatto nettamente inferiore. Un chilogrammo di frutta, per esempio, equivale a 1,1 chilo di anidride carbonica, pari a 4 km in auto. La produzione di carne richiede inoltre molta acqua. Secondo un rapporto del 2013 dell’Istituto degli Ingegneri Meccanici (IME) per produrre un chilo di carne ne servono dai 5 mila ai 20 mila litri, mentre per produrre un chilogrammo di grano ne sono sufficienti dai 500 ai 4 mila litri. Il cibo in assoluto più assetato è però la cioccolata: per produrne un solo chilogrammo sono necessari 17.197 litri d’acqua. Tuberi e vegetali sono decisamente meno esosi: un chilo di patate richiede solo 287 litri. Ovviamente, vacche e suini non vivono di sola acqua. I ricercatori della multinazionale finanziaria Fidelity hanno calcolato che nei recinti di ingrasso degli allevamenti statunitensi servono circa 7 chili di granaglie per produrre un aumento di un chilo di peso nel bestiame. Per i suini sono sufficienti quattro chili, per i polli due, e per i pesci di allevamento come le carpe meno di due. La crescita nella richiesta di carni, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, determina un aumento nella richiesta e nel costo dei mangimi e quindi nei prezzi della carne. Inoltre, una parte dei cereali, viene anche destinata alla produzione di biocarburanti come il bioetanolo, riducendone la disponibilità. Bisogna considerare, comunque, che solo negli Stati Uniti o in allevamenti in stile statunitense il bestiame viene nutrito quasi esclusivamente con cereali. In Europa, per esempio, i suini vengono nutriti con ghiande e mangimi appositi, i bovini con erba e fieno, gli ovini pascolano in terreni non coltivabili. Un differente tipo di allevamento meno dispendioso in termini di risorse non solo è possibile, ma pure auspicabile.

Ogni anno, due miliardi di tonnellate di cibo vengono buttate.

Per ripensare il modello con cui nutrire il pianeta si deve partire dalla riduzione degli sprechi. L’Istituto Fraunhofer per la Biologia molecolare e l’ecologia applicata stima che tra il 30 e il 50% della produzione alimentare venga eliminata prima di raggiungere le nostre tavole: ogni anno due miliardi di tonnellate di cibo vengono buttate. Ciò è dovuto a date di scadenza troppo stringenti, alle offerte “prendi tre e paghi due” che portano il consumatore ad acquistare più cibo di quello di cui ha effettivamente bisogno, alla richiesta di cibi esteticamente perfetti, a pratiche agricole, infrastrutture e magazzini per lo stoccaggio inadeguati. A causa del rifiuto dei supermercati di vendere frutti e verdure imperfette il 30% dei vegetali coltivati nel Regno Unito non viene neppure raccolto. 500 miliardi di metri cubi di acqua vengono sprecati così ogni anno per coltivare prodotti che non raggiungeranno mai le nostre tavole.

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Ridurre gli sprechi è una priorità per riuscire a nutrire una popolazione che secondo le stime dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO) dai 7,7 miliardi attuali raggiungerà i 9 miliardi già nel 2050. Nei prossimi anni, aumenterà il fabbisogno di suoli coltivabili, di acqua, di alcuni elementi come il fosforo, per non parlare di quello di risorse non rinnovabili come i combustibili fossili. Per sfamare una popolazione mondiale sempre più numerosa, cittadina e benestante, sarà necessario aumentare la produzione di cibo del 70%. La produzione annuale di cereali, oggi ferma a 2,1 miliardi di tonnellate al giorno, dovrà aumentare fino a 3 miliardi. Questo imponente incremento sarà possibile solo grazie a investimenti mirati e politiche agricole adeguate. Nei Paesi in via di sviluppo, l’80% del necessario surplus potrà essere ottenuto aumentando l’intensità e la resa delle coltivazioni e solo il 20% dall’estensione del terreno coltivabile. Tuttavia, le colture intensive possono rappresentare un rischio: impoveriscono il suolo ed esigono molta acqua. Globalmente, inoltre, la resa delle coltivazioni dei cereali è in calo, pressoché dimezzata tra il 1960 e il 2000. Solo gli investimenti nella ricerca e nello sviluppo di nuove soluzioni possono invertire questa tendenza: nuove specie vegetali adattate alle diverse condizioni climatiche ma anche tecnologie che consentano un miglior utilizzo delle risorse idriche. L’aumento della produzione agricola non potrà però risolvere il problema della fame se ampie fasce della popolazione mondiale resteranno in condizione di povertà. Per risolvere questo dramma sono necessari interventi volti a migliorare lo status socioeconomico e ridurre le disuguaglianze.
Pranzo al volo. Illustrazione di Daniela Germani.
A tal proposito, ci sono alimenti che, da sempre, rappresentano uno simbolo di prosperità quando non di sfarzo. Come la carne. Uno studio della Texas A&M University ha stimato che la richiesta di cibi animali aumenterà del 72 per cento entro il 2050. Una domanda difficile da soddisfare, anche per la mancanza di suolo da destinare agli allevamenti. Una fonte alternativa di proteine animali potrebbe derivare dagli insetti? Sebbene nel consumatore occidentale possano suscitare perplessità, in altre regioni del pianeta gli insetti sono considerati delle vere leccornie.

Gli insetti vivono ovunque e si riproducono velocemente, sono nutrienti, con contenuti elevati di proteine, grassi e minerali.

Nel Sudest asiatico, per esempio, le uova di formica tessitrice – fritte, in insalata o nelle omelette – sono una costosa prelibatezza. In Botswana, Zimbabwe, Sudafrica e Namibia, le larve della falena mopane (Gonimbrasia belina) sono fondamentali sia per l’alimentazione sia per l’economia locale. In Sudafrica vengono prodotti all’incirca 1,6 milioni di chilogrammi di larve di mopane all’anno e lo Zimbabwe ha persino dedicato una propria moneta a questo insetto. Essiccate, affumicate, mangiate fresche o cucinate con verdure, il loro gusto è delicato e ricorda quello delle foglie di tè. Nel mondo si consumano quasi duemila specie di insetti: coleotteri, lepidotteri, api, vespe, formiche, cavallette, locuste, grilli e molte altre. Gli insetti vivono ovunque e si riproducono velocemente, sono nutrienti, con contenuti elevati di proteine, grassi e minerali. Inoltre, possiedono un alto tasso di crescita e di conversione alimentare. In media gli insetti possono convertire 2 chilogrammi di cibo in 1 chilo di massa, mentre per aumentare della stessa quantità il peso corporeo di un bovino servono 8 chili di mangime. L’impatto ambientale di un allevamento d’insetti inoltre è basso: possono essere nutriti con rifiuti organici come resti di cibo e prodotti umani, compost e liquami, richiedono poca acqua e terreno e producono pochi gas serra. Dal 2003 la FAO sta studiando le potenzialità di insetti e aracnidi non solo per l’alimentazione umana, ma anche per quella animale. Il ricorso su larga scala degli insetti, interi o ridotti in farine e quindi amalgamati ad altri ingredienti, è sempre più diffuso e nei prossimi dieci anni la loro adozione, almeno come mangime nell’acquacoltura e nell’alimentazione di pollame, diverrà verosimilmente la regola. Certo, affinché questo avvenga, sarà necessario ottimizzare e automatizzare modelli di allevamento economicamente vantaggiosi, energeticamente efficienti e microbiologicamente sicuri. Così come nuove tecnologie per la loro raccolta e trattamento, nonché opportune procedure sanitarie che assicurino la sicurezza degli alimenti e dei mangimi. Superate queste criticità, il confronto con la filiera della carne, quantomeno in termini di sostenibilità, sarà imparagonabile.

Fino a una decina di anni fa il pesce crudo suscitava il medesimo rigetto. Eppure, i ristoranti di sushi oggi si contendono una folta clientela di avventori.

Tuttavia, il principale ostacolo allo sbarco degli insetti sulle tavole occidentali è costituito dalla repulsione che suscitano nella maggioranza delle persone. Fino a una decina di anni fa il pesce crudo suscitava il medesimo rigetto. Eppure, i ristoranti di sushi oggi si contendono una folta clientela di avventori. Se presentati nel modo giusto, anche gli insetti potrebbero divenire pietanze alla moda. E dunque facilitare il superamento di questa idiosincrasia ancestrale.
Tea bug. Illustrazione di Eliana Odelli.
Qualunque sia lo scenario che ci attende, per poter adattare l’agricoltura al nuovo clima dovranno essere sviluppate nuove soluzioni.

L’aumento della resa agricola, la diversificazione delle colture e l’apertura a nuove risorse rappresentano le fondamenta portanti su cui basare l’alimentazione del prossimo futuro. Purché l’architettura finale non si riveli un castello di carte, reso pericolante dalle folate del cambiamento climatico. Elevate temperature, alte concentrazioni di anidride carbonica nell’atmosfera, variazioni delle precipitazioni, invasione di specie infestanti e parassiti altereranno la disponibilità e stabilità delle risorse alimentari. Secondo alcuni analisti, tra il 2080 e il 2100 il cambiamento climatico ridurrà la produzione agricola africana di una percentuale compresa tra il 15 e il 30%. Di certo, non sarà equamente distribuito. I Paesi dell’emisfero australe saranno i più colpiti, mentre le latitudini più elevate potrebbero perfino beneficiare dei mutamenti, grazie all’aumento delle aree coltivabili e della resa dei raccolti, nonché alla dilatazione della stagione favorevole alla coltivazione. Qualunque sia lo scenario che ci attende, per poter adattare l’agricoltura al nuovo clima dovranno essere sviluppate nuove soluzioni. Alcune potrebbero passare per i laboratori. Fin da quando ha iniziato a coltivare piante e allevare animali a scopi alimentari, l’essere umano ha cercato di selezionare quelli con le caratteristiche più vantaggiose, attuando un inconsapevole, ma voluto, miglioramento genetico. Tali caratteristiche rispecchiavano variazioni genetiche che, avvenute casualmente in natura, avevano come risultato, per esempio, un aumento della resa agricola o della resistenza a malattie o pressioni ambientali. Lo sviluppo della genomica ha reso possibile modificare il materiale genetico per esaltare particolari caratteristiche o ottenerne di inedite in piante, animali, batteri e funghi. Una grande rivoluzione, i cui esiti avremo modo di osservare, e forse gustare, già nei prossimi decenni.


Questo articolo è la seconda e ultima parte di una serie sull’alimentazione nell’Antropocene. Leggi la prima parte: “La dieta dell’Antropocene”.

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