Tutto è cominciato nel 1993, quando Lucia Capra stava studiando geologia all’Università degli Studi di Milano. Al momento di svolgere la tesi come progetto le fu proposto un tirocinio in vulcanologia. Un professore messicano che in quel momento si trovava in Italia propose ad alcuni ragazzi di trasferirsi per quattro mesi in Messico, presso la UNAM, a studiare una regione vulcanica in cui si trovava una caldera. Cioè una zona con una riserva di calore nel sottosuolo, la cui classica manifestazione sono le fumarole, e scrivere la tesi su quel sito.
Lei e altre due giovani studentesse decisero di accettare e partire per questa regione, che da allora viene chiamata “Caldera de las tres chicas” proprio in riferimento a loro. «La caldera si trova vicino alla città di Zitácuaro, nello stato Michoacán. Oggi non si potrebbe andare a causa del narcotraffico, ma 25 anni fa era bellissimo» ricorda Capra.
Finito il tirocinio e tornata in Italia per conseguire la laurea, il Messico e lo studio dei vulcani le mancarono subito. «Un giorno mi arriva una cartolina da un ricercatore conosciuto alla UNAM che era ad un congresso in Turchia, sul retro c’è scritto: “Spero di vederti presto in Messico” il giorno dopo ho comprato un biglietto aereo e sono tornata. Là ho proseguito gli studi e poi ho iniziato il dottorato» aggiunge Capra. La sua carriera prosegue fino a diventare nel 2006 ricercatrice al Centro di Geoscienze, che adesso dirige dal 2018.
Capra racconta che in Messico il carattere delle persone le porta subito a farti sentire parte della comunità «Mi sono abituata dal primo giorno, hai sempre la sicurezza che se sei in difficoltà qualcuno si fermerà ad aiutarti. È stato così anche per la tesi, ci spostavamo con una macchina degli anni ‘70 che si guastava quasi ogni giorno, ma abbiamo sempre trovato persone disposte ad aiutarci», dice.
«Ciò che studio necessita delle evidenze che possiamo trovare solo sul campo; è un lavoro imprevedibile e a volte faticoso»
La ricercatrice racconta alcune disavventure vissute sul campo che ci fanno vedere i geologi un po’ come esploratori o avventurieri. Lei stessa ammette che non sarebbe altrettanto felice di stare sempre in ufficio o in laboratorio: «Ciò che studio necessita delle evidenze che possiamo trovare sul campo, è un lavoro imprevedibile e a volte, ovviamente, faticoso: nella stagione delle piogge per esempio, la vegetazione è molto rigogliosa e di sentieri percorribili in macchina ce ne sono pochi, spesso dobbiamo portare il machete e aprirci i sentieri da soli. L’unica vera disavventura – racconta – è stata due anni fa. Eravamo nel Chiapas perché c’era stato un terremoto che aveva provocato delle frane. Lì vivono alcune popolazioni indigene che ci hanno sequestrati per un giorno perché temevano che facessimo parte di qualche compagnia mineraria e che volessimo sfruttare quella zona. Poi ci siamo capiti e ci hanno lasciati andare, facendosi promettere che non saremmo più tornati. Questo è stato l’unico episodio in vent’anni, per il resto non ho mai avuto problemi».
Parlando con Capra si capisce quanto sia appassionante il lavoro sul campo «Puoi sempre assistere a un’esplosione o a qualche altro fenomeno. Una volta, mentre portavo i miei studenti in escursione, il vulcano ha fatto uno scoppio e poi ha iniziato a piovere: la pioggia era leggermente acida e i ragazzi ancora conservano quelle magliette macchiate», ricorda sorridendo.
Lo stesso procedimento che si applica allo studio dei vulcani si può applicare ad altri fenomeni, come i lahar, chiamati anche colate detritiche. «Questi possono essere associati ad attività vulcanica oppure no» spiega Capra, «Per quanto riguarda i lahar, il Colima è un laboratorio naturale, ci sono 30 – 40 eventi per valle ogni anno».
In alcuni casi i lahar sono imprevedibili, possono formarsi molto rapidamente. A monte piove e magari dove c’è la stazione di monitoraggio c’è ancora il sole.
I lahar si formano quando una grossa quantità di acqua, dovuta a piogge o scioglimento di ghiacciai, non viene assorbita dal terreno, si mescola al sedimento e inizia a trasportarlo con sè. «Mano a mano che scorrono raccolgono materiale, e aumentano il loro volume fino al 20 – 50%. I blocchi di detrito trasportati possono essere grandi quanto automobili e sono seguiti da una colata che sembra cemento». I lahar che si formano sulle pendici dei vulcani messicani hanno come origine piogge intense che possono essere di due tipi: piogge sparse, che durano 10 – 15 minuti ma con un’intensità di 80 millimetri ogni ora, tipiche della stagione delle piogge; oppure piogge tropicali che durano per giorni. «Nel primo caso» racconta Capra «i lahar sono imprevedibili, possono formarsi molto rapidamente. A monte piove e magari dove c’è la stazione di monitoraggio c’è ancora il sole».
Lucia Capra studia i lahar dal 2008 e sorride mentre racconta gli strumenti che utilizzava quando sono partiti questi studi. «Abbiamo iniziato senza soldi, quindi come strumenti usavamo delle fototrappole, quelle che solitamente si adottano per la fauna, e una stazione delle piogge a cui ogni volta dovevamo tornare per prendere i dati poiché non li spediva in automatico. È stato un disastro, avevo foto di tutti gli animali del vulcano, ma nemmeno un lahar!». La situazione cambia con la partecipazione a un bando di progetto del CONACYT (Consejo Nacional de Ciencia y Tecnología), l’equivalente dell’italiano CNR. Il progetto è stato finanziato, permettendo l’acquisto di videocamere, una stazione che trasmette in tempo reale dotata di sensori di umidità, pannelli solari per l’alimentazione, e geofoni, ovvero sensori che permettono di captare le onde che si propagano nel suolo, dando informazioni sui movimenti del terreno.
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«Quello che studi ha sempre un risvolto sociale: ciò che cerchiamo sono strumenti che la protezione civile possa usare per mitigare i danni di un’eruzione o un lahar»
La ricerca su questi processi geologici serve a rappresentarli con formule matematiche che li rendano prevedibili e che permettano una prevenzione più efficace, evitando o mitigando i danni alle zone più vulnerabili. Basti pensare che solo nella zona della provincia di Trento gli eventi di colata detritica (seppur non legati a vulcani) registrati dalla provincia dal 1991 al 2009 sono stati 215, ciò significa una dozzina di colate detritiche ogni anno. Le conseguenze sono quelle di cui sentiamo parlare quando avvengono piogge straordinarie: danni alle infrastrutture, alle abitazioni, in alcuni casi purtroppo agli stessi abitanti. Proprio per questo, il lavoro dei geologi è fondamentale, siano questi svolti alle pendici di un vulcano o lungo un torrente alpino: «Quello che studi ha sempre un risvolto sociale, alla fine ciò che cerchiamo sono strumenti che la protezione civile possa usare per mitigare i danni di un’eruzione o un lahar. Quindi è qualcosa che ha un beneficio tangibile» dice Lucia Capra parlando degli aspetti del suo lavoro.
La parte che ama di più è il fatto di avere a che fare con fenomeni vivi. «Si può ricostruire come un puzzle quello che vedi e capire com’era in tempi passati. La geologia non è una scienza esatta e se studi un vulcano attivo hai la possibilità di vedere un’istantanea di un processo e usare i dati per reinterpretare eruzioni più antiche. È appassionante perché puoi acquisire dati durante l’evento e interpretare meglio i depositi più vecchi.» Capra parla del lavoro da geologa come quello di uno storico, che attraverso le sue avventure sul campo raccoglie dati e studia cosa è successo alla Terra nelle ere più antiche e offre uno sguardo sui cambiamenti futuri del territorio.
Questo articolo è stato prodotto con il supporto del River Basin Group della Free University of Bozen-Bolzano, progetto di collaborazione Italia-Messico EARFLOW