Ma là fuori c’è un oceano, sempre più caldo e carico di cicloni. L’erosione costiera a Kuakata è feroce. Comunità e autorità ragionano opponendo resistenza con blocchi di cemento, e costruendo nuove strade. Strade che scandiscono la storia coloniale del Paese, dagli inglesi, ai pakistani e ora il colonialismo economico dei Paesi industrialmente più potenti. Strade e argini inesorabilmente destinati a scomparire, sprofondati nel delta. Secondo
uno studio recente, è vero che le vittime di inondazioni e cicloni sono diminuite, ma sono aumentati i danni alle infrastrutture.
Komola Begum ha mostrato cosa si intende invece per resilienza, che scientificamente si potrebbe definire come la capacità di un sistema di modificarsi e adattarsi a una nuova condizione ambientale, trovando un nuovo equilibrio. Dopo aver visto la spiaggia arrivare fino alla sua proprietà, l’argine distrutto dal ciclone Sydr nel 2009 e la sua casa in lamiera scoperchiata, non è emigrata a Dhaka come molti altri. Si è invece adattata alla situazione, trovando un equilibrio che ora è diventato perfino un lavoro.
«Faccio questo lavoro da 6 anni», dice. «In settimane molto produttive, per esempio durante i monsoni, quando l’erosione è più forte, riesco a produrre anche 80 sacchi. Faccio questo lavoro per i miei figli, per garantirgli un’educazione. In futuro forse mi ripagheranno». I frammenti estratti dal mare e sminuzzati dalla donna e sua sorella vengono usati nelle pavimentazioni di edifici e strade. «Ci sono i miei mattoncini anche nell’ospedale di Kuakata», dice sorridendo Komola Begum. A 1,20 euro per sacco, è quanto basta per mandare i suoi tre figli di 8, 10 e 15 anni a scuola. Quando riceve un ordine grosso, anche se non avviene di frequente, Komola Begum riesce a guadagnare 45 euro in una settimana.
La storia dell’oceano che divora strade, campi e foreste ha radici lontane, e comunque questo è pur sempre un delta, una regione in continua evoluzione. Lo dimostrano la strada coloniale inglese da tempo scomparsa o le memorie del nonno di Komola Begum. Da un lato c’è la geologia: la subsidenza legata in parte alla natura dei sedimenti fluviali in quello che è uno dei delta fluviali più grandi al mondo. Mediamente, le aree costiere del Bangladesh
sprofondano al ritmo di 4 millimetri l’anno (ma fino a 7 in alcuni punti). I sedimenti si compattano con il tempo e su tutto agisce anche anche uno sprofondamento del substrato roccioso, ancora legato alla formazione della catena himalayana. Questo è il risultato di vivere su un Pianeta dinamico come il nostro.
Ma dall’altro c’è l’azione umana, molto più recente, ma molto più attiva sull’ambiente e il territorio. L’impatto più vicino e più recente è dovuto alla conversione di foreste costiere di mangrovie, e dell’economia prevalentemente agricola lungo le coste, a quella dell’acquacoltura. L’acquacoltura è approdata 3 decadi fa in Bangladesh, e oggi il paese è il quinto produttore al mondo. A favorire il passaggio dall’agricoltura alla produzione di gamberetti per le tavole europee o statunitensi è stata la progressiva salinizzazione dei suoli, dovuta alla subsidenza e alla risalita del livello marino. Così i campi, ma anche molte foreste, si sono trasformati in pozze per la gambericoltura e la piscicoltura. Oggi l’intrusione di acqua salina nelle falde può arrivare fino a 100 chilometri all’interno del Paese, ma con il tempo e a causa della risalita del livello marino,
aumenterà anche il grado di salinità. Nella stagione secca, il 40% della superficie del Bangladesh è affetto dalla salinizzazione (che poi nel periodo monsonico
si può ridurre al 10%).
Il taglio delle mangrovie non ha fatto altro che accentuare lo sprofondamento, perché con le loro radici queste piante intrappolano il sedimento che ora scompare in mare. Ma ha anche tolto una difesa naturale contro i cicloni, che spingono le maree ancora più all’interno della regione. Il tutto per un prodotto destinato all’esportazione con capitali che vanno nelle città, che occupa meno persone, che riduce l’indipendenza alimentare del Paese, e soprattutto che coinvolge meno le donne, a differenza del lavoro agricolo.