L’impatto dell’umanità sull’ecosistema è anche il frutto della complessità sociale che ha guidato le scelte verso un benessere istintivo. Noi usiamo l’ecosistema; spesso ne abusiamo. Da quando le conseguenze del nostro agire sono note, gli esseri umani si muovono tra la consapevolezza del danno procurato e la difficoltà a modificare i modelli di produzione e consumo. La necessità di cambiamento a fronte dell’attuale crisi climatica deve fare i conti con un sistema umano ricco di sfumature, come nel caso degli allevamenti intensivi italiani.
La Pianura padana: un’area tra le più inquinate d’Europa, modellata dall’operato umano, ora alla ricerca di nuovi equilibri.
Secondo i dati raccolti dall’Istituto superiore di protezione e ricerca ambientale, in Italia l’agricoltura e l’allevamento contribuiscono a circa il 7% del totale delle emissioni di gas serra e al 94% delle emissioni di ammoniaca. Gli allevamenti zootecnici, in generale, sono attività che determinano un notevole impatto sull’aria, sul suolo, sulle acque superficiali e sotterranee.
I dati sugli allevamenti intensivi
Gran parte della produzione deriva da allevamenti intensivi, diffusi soprattutto in Veneto, Piemonte, Emilia-Romagna e Lombardia. È, a grandi linee, la Pianura padana: un’area tra le più inquinate d’Europa, modellata dall’operato umano, ora alla ricerca di nuovi equilibri.
La Lombardia, in particolare, è ai primi posti dell’anagrafe zootecnica nazionale per numero di capi, grazie agli oltre 12.600 allevamenti. In regione sono stati censiti 4.493.155 maiali, circa il 50% del totale nazionale, 1 milione e mezzo di bovini, decine di milioni di esemplari avicoli. Gli animali trovano spesso posto negli allevamenti intensivi. È una forma di allevamento radicata nei meccanismi di consumo; spina dorsale di un sistema di produzione imponente. Si tratta di una immensità invisibile, confinata in strutture funzionali.
Cosa sono (per davvero) gli allevamenti intensivi
La realtà degli allevamenti intensivi italiani è stata per lungo tempo poco documentata. Solo di recente è stato possibile vedere il contesto in cui si genera una parte consistente dei nostri consumi. Ciò è avvenuto grazie all’impegno di chi lotta per i diritti degli animali. Sono movimenti nati dal basso, ben strutturati e non più confinati ai margini del dibattito.
L’organizzazione Essere Animali è una tra le prime realtà che ha mostrato al pubblico ciò che avviene all’interno dei grandi allevamenti. Gli attivisti penetrano nelle strutture, sia come lavoratori infiltrati, sia nel corso di raid notturni. In seguito, diffondono le immagini e i racconti di ciò che è il sistema degli allevamenti intensivi italiani.
Fino a pochi anni fa era praticamente impossibile reperire una fotografia di un maiale italiano in gabbia.
«L’organizzazione nasce a partire dai primi movimenti animalisti italiani nati dal basso che agivano già a inizio millennio», racconta Francesco Ceccarelli, membro fondatore e responsabile investigazioni di Essere Animali. «Contiamo circa 20 dipendenti, un centinaio di attivisti e migliaia di associati. Ci occupiamo in gran parte dei cosiddetti animali da reddito».
L’azione delle associazioni ambientaliste
Essere Animali svolge investigazioni, campagne di pressione e reportage informativi. «Fino a pochi anni fa era praticamente impossibile reperire una fotografia di un maiale italiano in gabbia», spiega Francesco Ceccarelli. «Le uniche immagini disponibili provenivano all’estero. Da quando abbiamo foto e testimonianze provenienti dal nostro paese, il nostro messaggio è diventato più potente e colpisce. Nel pensiero comune si credeva che le brutalità degli allevamenti intensivi avvenissero lontano. Noi dimostriamo che non è così. Il problema è presente anche qua ed è grave».
Le fotografie raccolte nel corso delle incursioni organizzate da Essere Animali si scontrano con il diffuso immaginario collettivo che vede gli allevamenti italiani come parte di una cornice rurale, antica, capace di offrire bontà agreste genuina, la cui stessa provenienza offre garanzia di qualità.
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Allevamenti intensivi e inquinamento
A sporcare irrimediabilmente questo confortevole ritratto ci pensano anche i dati sull’inquinamento prodotto dal comparto zootecnico. I processi digestivi degli animali rappresentano circa il 45,4% delle emissioni di gas serra di origine agricola, i suoli agricoli il 30,7%, la gestione delle deiezioni animali il 17,2%.
Allo stesso tempo, gli allevamenti contribuiscono a circa il 57,9% del totale delle emissioni di ammoniaca di origine agricola. Le altre fonti sono direttamente correlate, come nel caso dello spandimento delle deiezioni animali (19,8%), dell’applicazione al suolo di fertilizzanti azotati sintetici (15,2%), e di altri fertilizzanti organici (3,9%).
Per quanto riguarda le emissioni inquinanti, gli allevamenti zootecnici sono sottoposti principalmente a tre normative. Si tratta dell’Autorizzazione integrata ambientale (AIA) e l’Autorizzazione alle emissioni in atmosfera e la direttiva comunitaria 91/676/CEE nota come Direttiva nitrati.
L’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente (ARPA) della Lombardia svolge attività di monitoraggio ambientale e di controllo anche nel contesto agricolo e zootecnico.
Il ruolo dell’ARPA
«Lavoriamo in una regione con 10 milioni di abitanti. Di questi, circa 8 milioni vivono nella zona in cui si trovano le attività produttive più significative. Svolgiamo attività di controllo su una piccola parte degli allevamenti, quelli intensivi con AIA», spiega Sergio Padovani, direttore del Settore Attività Produttive e Controlli di ARPA Lombardia.
«L’impatto ambientale degli allevamenti intensivi nasce dalla catena di gestione degli effluenti, i quali vengono prodotti, stoccati e poi utilizzati agronomicamente. Gli effluenti sono sia liquidi che solidi. Il letame viene stoccato e poi riutilizzato».
«Le aziende agricole presentano il Piano di Utilizzazione Agronomica (PUA)», prosegue Padovani. «è il documento che definisce i quantitativi massimi degli elementi nutritivi come azoto, fosforo e potassio. Questi si distribuiscono annualmente sul terreno, per coltura o per ciclo colturale, e dove l’utilizzo avviene nel rispetto del bilancio dell’azoto. Il permesso o il divieto di spandere, nella stagione autunno/vernina, in un particolare giorno viene dato a seconda dei bollettini forniti da ERSAF, tramite il “servizio bollettino nitrati”».
Nitrati e limiti amministrativi
Sergio Padovani chiarisce anche che «l’intero processo ha il fine di raggiungere le migliori condizioni possibili per l’ambiente. Ci sono dei limiti amministrativi ben definiti per lo spandimento di nitrati da allevamento in base alla posizione dei terreni. Questi possono essere in Zona Vulnerabile (massimo di 170 chilogrammi per ettaro all’anno) o in Zona Non Vulnerabile (fino a 340 chilogrammi per ettaro all’anno). Si tratta di un tipo di organizzazione che bisogna conoscere e approfondire. Per esempio, se una coltivazione di mais necessita di circa 280 chili di azoto all’anno, ma si trova in una zona vulnerabile in cui posso utilizzarne solo 170 chili provenienti da allevamento, si dovrà integrare il tutto con concime chimico o di altra provenienza».
Un’indagine discussa
Di recente, un’indagine condotta dall’unità investigativa di Greenpeace ha portato nuova attenzione sull’inquinamento prodotto dagli allevamenti intensivi lombardi e su quella che appare ormai una distorsione operata dall’essere umano a danno dell’ecosistema. Greenpeace segnala che alla fine dello scorso anno la Regione Lombardia ha diffuso una relazione tecnica in cui spiccano i 168 comuni dove nel 2018 si è superato il limite legale annuo di azoto per ettaro.
Gli autori hanno confrontato la relazione tecnica con il database dei finanziamenti europei per l’agricoltura (PAC). Metà dei soldi pubblici europei destinati alla zootecnia, 120 milioni di euro, sono stati assegnati nei comuni lombardi che per Greenpeace sono “fuori norma”.
L’indagine ha avuto una grande risalto mediatico ma il metodo con cui sono stati interpretati i dati viene contestato dal personale di ARPA Lombardia.
La replica di ARPA Lombardia
Sergio Padovani sottolinea che «la relazione della Regione citata da Greenpeace indica il superamento dei limiti di 170 e 340 chilogrammi di azoto calcolato però in base al carico zootecnico allevato nell’ambito comunale e non al quantitativo di azoto utilizzato sui terreni. Inoltre tale relazione deriva da un disposto specifico in merito all’individuazione di quei comuni dove non è consentito lo spandimento dei fanghi».
«Ipotizziamo che un allevamento produca 100.000 chili di azoto all’anno e la superficie agricola del comune dove è ubicato, possa assorbirne solo la metà», precisa Padovani, «l’allevamento non è “fuorilegge”. Ha prodotto, ha stoccato ma non ha ancora utilizzato. La produzione e l’utilizzo sono due cose distinte nei valori; il vincolo amministrativo è relativo all’utilizzo e non alla produzione. Per capire dove finiscono i nitrati bisogna leggere i PUA, i documenti che indicano l’utilizzo. La corretta verifica andava fatta sui PUA e non sul carico allevato. È come se Greenpeace avesse saltato l’ultimo passaggio della filiera».
Allevamenti intensivi, la necessità di uno sguardo d’insieme
Le analisi e le indagini si scontrano spesso con una complessità che a tratti sembra ineffabile e che necessita quanto mai di uno sguardo d’insieme, sulla quale i soggetti e le realtà interessate possano incontrarsi. La Lombardia percorre da anni, tra grandi difficoltà, la strada verso il recupero ambientale.
Ne è ben cosciente Daniele Palmulli, responsabile della comunicazione di ARPA Lombardia.
«Il comparto agricolo è ricco di sfaccettature. I dati monitorati sono generali e vanno rapportati al tessuto zootecnico. Il percorso è lungo e difficile, e solo adesso iniziamo a vedere qualche segno di miglioramento, come nel caso della qualità delle acque di certi fiumi. Dobbiamo sempre ricordarci che si inquina in cinque minuti ma si recupera in decenni. Le principali criticità sono figlie di una storia lunga e a volte sconsiderata – se vista con gli occhi del presente – che ha come protagonisti l’essere umano e il suo rapporto con il territorio».
Una questione anche politica
Tuttavia, sottolinea Daniele Palmulli, «la realtà lombarda è complessa e difficile da capire. Ciò che ci teniamo a precisare, però, è che ARPA non ha vincoli di alcun tipo. Noi svolgiamo sempre la funzione che la legge ci chiede e agiamo liberi. L’Agenzia ambientale monitora, per quanto di sua competenza, producendo dati e relazioni che, successivamente, gli organi politici dovranno esaminare. Ai decisori, infatti, compete la scelta delle politiche ambientali da attuare».
Sostenibilità e salute secondo gli allevatori
È così che il comparto agricolo e zootecnico della Lombardia si trova a suo modo al centro di una transizione, lunga e diluita. Nonostante le criticità, ci sono allevatori che, più formati e consapevoli, tendono a loro volta verso il miglioramento. Realtà come l’Associazione Regionale Allevatori della Lombardia (ARAL) considerano con attenzione i problemi etici e sociali dell’intero comparto.
Uno dei membri, il direttore tecnico Andrea Galli, racconta che «siamo impegnati a garantire il benessere degli animali allevati, la salubrità delle produzioni e la sostenibilità ambientale. Lo facciamo attraverso una serie di azioni dirette ai singoli animali e al consumatore. Partiamo dal controllo mensile di più di 600.000 animali a cui viene prelevato un campione di latte poi analizzato in laboratorio. Consideriamo valori in grado di documentare non solo la qualità del latte, ma anche lo stato di salute e di benessere dell’animale».
Il tutto per limitare l’impronta di carbonio dell’allevamento e la produzione di inquinanti atmosferici.
Dal produttore al consumatore
«Eseguiamo 4 milioni di analisi ogni anno, utili al produttore e al consumatore per garantire un costante monitoraggio degli animali allevati e degli allevamenti. Il laboratorio ARAL procede poi alle analisi qualitative sul latte prodotto settimanalmente negli allevamenti e sugli alimenti utilizzati per il bestiame al fine di documentare l’assenza di sostanze tossiche o potenzialmente tali per gli animali e per l’essere umano».
Secondo Andrea Galli, «la sostenibilità ambientale si può raggiungere anche tramite attività di consulenza relativa alla gestione dei terreni agricoli usati per la produzione del foraggio e alla gestione dei reflui di allevamento. Il tutto per limitare l’impronta di carbonio dell’allevamento e la produzione di inquinanti atmosferici. Oggi operiamo in un contesto attento e disponibile».
Produzione, lavoro, società
I numeri sull’impatto generale del comparto, però, restano gli stessi. Nonostante un sensibile miglioramento, gli allevamenti intensivi costituiscono uno degli esempi più evidenti di un rapporto alterato e malsano con l’ambiente e gli animali. Il sistema intensivo si intreccia con la società umana, soddisfa il fabbisogno degli individui, diventa parte della quotidianità.
Lo sa bene Marco (il nome è di fantasia), uno degli investigatori di Essere Animali che, da infiltrato, ha osservato e documentato ciò che avviene negli allevamenti di massa. «Ottenere un contratto e iniziare a lavorare è facile. I lavoratori sono spesso stranieri. Gli stipendi sono bassi e si lavora tutti i giorni della settimana. Di solito si comincia di prima mattina. Si fanno i lavori di pulizia, si puliscono gli escrementi, si rimuovono i cadaveri: ce ne sono ogni giorno, immancabilmente».
La brutalità è insita nel sistema. La violenza diventa un’abitudine.
«Poi c’è la movimentazione; il personale sposta gli animali durante la notte, quando sono più docili. E poi ci sono molte altre attività, spesso cruente. Per esempio, i maiali appena nati vanno tatuati, castrati e gli viene amputata la coda. Calci, spinte, colpi di bastone: succede quando devi spostare migliaia di capi da un capannone all’altro nel giro di poche ore».
gli ANIMALI, l’ambiente e noi
Secondo la testimonianza di Marco, «il lavoro viene spesso gestito da cooperative, con contratti non chiari o non regolari dal punto di vista degli orari e della sicurezza. Io stesso ho lavorato privo di protezioni e ho constatato la totale incuria di molte realtà. Sono ambienti che predispongono alla violenza, in cambio di 1.000-1.200 euro al mese. Fare violenza agli animali è dentro agli allevamenti intensivi.
La brutalità è insita nel sistema. La violenza diventa un’abitudine».
L’inquinamento, le conseguenze sulla salute pubblica, il rischio accertato di zoonosi, lo sviluppo di resistenze agli antibiotici, la sicurezza sul lavoro, le abitudini al consumo, il peso sull’economia. Il sistema intensivo è a fondamento dell’attuale rapporto dell’essere umano con l’ecosistema. Si tratta di masse che nutrono e soddisfano altre masse. Lo sguardo d’insieme alla complessità del sistema e la consapevolezza di ciò che accade negli allevamenti intensivi offrono l’occasione per ragionare sulla strada da intraprendere verso il cambiamento.
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