All’improvviso la foresta – umida, verdissima e sfolgorante di vita – finisce. Gli alberi si diradano di colpo, lo sguardo si apre su una distesa dorata, quasi surreale dove abbondano i frailejónes. Appoggio lo zaino e riprendo fiato. Sono arrivato al Paramo. Siamo nel Parque Nacional Natural Los Nevados, al confine tra i dipartimenti di Quindio e Tolima, nelle Ande colombiane. Con me ci sono Silvio Correa Rojas e Silvia Martinez Zapata, entrambi biologi. Lui lavora per il parco nazionale, e da quarant’anni cammina per queste montagne. Lei lavora per il comune di Salento, il villaggio più vicino e una delle entrate principali al parco. Ci siamo conosciuti in cammino, mentre salivano al paramo per raccogliere dati e monitorare lo stato di conservazione di questo fragile ecosistema.
«Da questo parco nazionale nascono sorgenti che danno da bere a tre milioni di persone in quattro dipartimenti», mi racconta Silvia Martinez Zapata, mentre cerco di stare al suo passo. Il Paramo è un ecosistema di fondamentale importanza, anche se sono in pochi a saperlo. In Colombia si può bere l’acqua del rubinetto e il 70% dell’acqua potabile del Paese arriva dal Paramo. Lo stesso ecosistema aiuta a contrastare il cambiamento climatico: si stima che possa immagazzinare fino a mille tonnellate di anidride carbonica per ettaro, molto di più di quanto riesca a catturarne qualsiasi tipo di foresta.
«Il problema», continua Silvia, «è che non c’è l’interesse dell’opinione pubblica. Il turismo cresce, i terreni adibiti al pascolo si espandono e chi ne risente è proprio il Paramo. È un ecosistema molto sensibile, che per le basse temperature e scarsità di ossigeno si riprende dai cambiamenti in maniera molto lenta. Noi cerchiamo di assicurarci che non si superi il confine».
Le riserve d’acqua del Paramo andino
La pianta più rappresentativa di questo ecosistema è il frailejón (Espeletia hartwegiana), tanto che appare anche sulle monete di 50 pesos colombiani. È una delle poche specie che si è adattata alle dure condizioni alto-andine. Da lontano può quasi ricordare una palma ma, curiosamente, fa parte della stessa famiglia dei girasoli. «L’importanza di questa pianta», mi spiega Silvio Correa Rojas, «sta nel fatto che è il raccoglitore d’acqua del Paramo: i peli delle sue foglie catturano l’umidità e, tramite l’effetto della capillarità, la pianta la trasferisce alle radici e la fissa al suolo».
Nel sottosuolo del Paramo si creano enormi riserve d’acqua che fanno nascere innumerevoli ruscelli e torrenti. Il frailejón è una specie molto fragile che cresce solo di un centimetro all’anno. «Nelle zone meno antropizzate del parco abbiamo alcuni esemplari che superano i tre metri: questo significa che hanno vissuto trecento anni».
Un cammino di monitoraggio
Passiamo la notte alla finca La Playa, una rustica capanna con alcuni posti letto, una calda cucina con il fuoco sempre acceso e la signora Luz, pronta ad accoglierti con un’agua panela bollente (una bevanda a base di acqua e succo di canna da zucchero). Il mattino dopo ci svegliamo all’alba, e iniziamo il cammino di monitoraggio.
La prima tappa è con Enrique, che si definisce il più grande conservazionista de Los Nevados. Ha in affido un enorme terreno, conosciuto come Finca Japón: centinaia di chilometri quadrati che comprendono tutta la vallata. «Prima qui tenevamo vacche, facevamo il formaggio come gli altri», mi spiega orgogliosamente Enrique, «ma ora questo territorio è ora diventato una zona produttrice di ossigeno e acqua per il mondo. Solo nella nostra finca ci sono decine di sorgenti». Camminiamo in mezzo ai cespugli fino ad arrivare a un grande buco con delle pietre da cui sgorga allegro un nuovo ruscello.
I biologi Silvio Correa Rojas e Silvia Martinez Zapata raccolgono informazioni e aggiornamenti da Enrique, gestore della Finca Japón.
Continuiamo il sentiero fino ad arrivare alla laguna El Encanto. La nebbia si dirada, e lascia intravedere le sponde gremite di frailejones del freddo specchio d’acqua. «Nove, dieci, undici… tu quante ne conti, Giacomo?». Stiamo osservando alcuni esemplari di anatra delle Ande (Anas andium), una specie a rischio di estinzione che vive in questa laguna. Una volta alla settimana, Silvio ne conta il numero, ne valuta le condizioni e ne annota i comportamenti. Poco dopo, salendo verso il ghiacciaio, Silvia nota della spazzatura, che raccogliamo e portiamo via con noi.
Abbiamo già superato quota quattromila: siamo in quello che una volta era conosciuto come il campo base. «Fino a qualche anno fa qui si poteva campeggiare, per passare la notte sotto la cima del Nevado del Tolima. La natura stava risentendo molto del turismo di massa delle grandi agenzie di Salento. Fortunatamente siamo riusciti a farlo proibire. Ora, se qualcuno vuole passare la notte, lo fa qualche chilometro più in giù, in una delle fincas che offrono alloggio».
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Punto di rottura
Proseguiamo il cammino annotando osservazioni, tracce di muli dove non dovrebbero essercene, altra spazzatura. Fino a giungere alla base del Nevado del Tolima, a 4860 metri. Da qui per proseguire è obbligatorio avere con sé corde, ramponi e piccozze. L’altitudine si fa sentire. Il ghiacciaio splende imponente davanti ai nostri occhi. Un cartello ci indica che qui, nel 1990, era il limite delle nevi. Il cartello con il limite del 1950 l’abbiamo incontrato centinaia di metri più in basso.
Oggi, il primo ghiaccio si calpesta a un’altitudine di oltre 5000 metri. Il suo stato è critico, e si prevede che scomparirà completamente tra il 2040 e il 2050. Il clima cambia, le temperature salgono, il ghiaccio si scioglie. Anche il limite del Paramo sale e diventa inospitale per i frailejones. L’equilibrio si rompe, l’acqua non viene più immagazzinata e 38 comuni restano senza risorse idriche. Il paesaggio cambia, la biodiversità diminuisce. Molte specie scompaiono perché non hanno il tempo per adattarsi al repentino cambiamento.
La laguna El Encanto, alimentata dall’acqua che raccolgono i frailejones, accoglie una colonia di anatra delle Ande (Anas andium), in pericolo d’estinzione.
Per poter limitare i danni ambientali, alcune popolazioni indigene di molte zone dell’America Latina chiudono le porte dei loro territori a qualsiasi straniero, non accettando alcuna visita esterna. Ci sono casi in cui si può fare turismo solo accompagnati e per molto denaro, trasformandolo però in un turismo elitario, limitato, accessibile solo a una piccola percentuale abitanti del pianeta. Una prospettiva valida, ma è davvero l’unica soluzione che rimane?
Noi, come europei e italiani, non abbiamo proprio nulla da insegnare a livello di conservazione degli ambienti di montagna. Basti vedere le condizioni delle Dolomiti, tra turismo di massa e impianti di risalita che si scontrano con la realtà del cambiamento climatico. Quello di cui c’è bisogno – rifletto con Silvia salendo il Paramo – forse è educazione, sensibilizzazione, avvicinamento al territorio in maniera cosciente.
Per l’essere umano la natura è solo una risorsa da sfruttare, da cui trarre profitto. Scavando, rompendo, costruendo, coltivando, formalizzando, settorializzando, comprando, vendendo. Tanto civilizzati da aver costruito un sistema socio-economico totalmente opposto al mondo naturale, diminuendo sempre più il continuum fra noi e la natura. Questa è l’eredità che ci hanno lasciato i nostri predecessori. Ma dobbiamo fare qualcosa, per cambiare. Un piccolo sforzo, una piccola spinta. Basterebbe così poco. Soffermarsi a guardare il muschio, per esempio. Camminare nel bosco con qualcuno che lo conosca veramente per poter ascoltare le connessioni tra le specie vegetali, i segreti dell’ecosistema. Così, proteggere la natura diventerebbe un fatto imprescindibile.