Le caratteristiche che rendono i PFAS così utili per la fabbricazione di prodotti di consumo sono anche il motivo per cui sono considerati pericolosi per l’ambiente e per la salute. I PFAS infatti non si degradano con facilità. Una volta dispersi nell’ambiente, vi possono rimanere per un tempo lunghissimo, indefinito.
Gli effetti della maggior parte dei composti della famiglia dei PFAS sulla salute sono ancora in fase di studio. Per ora, infatti, le sostanze che sono state sottoposte a test approfonditi sono poche. Inoltre, la ricerca pubblica su queste sostanze fatica a stare al passo delle aziende che le producono. Ciò che si sa, al momento, è che l’esposizione ai PFAS può comportare alcune gravi conseguenze per la salute, come cancro e infertilità. È stato stimato che queste sostanze gravino ogni anno sui sistemi sanitari europei per un importo compreso tra 52 e 84 miliardi di euro. A comportare rischi è l’esposizione prolungata a concentrazioni alte di PFAS, come nel caso di chi, per una vita, ha lavorato nell’impianto chimico Miteni.
Lavorare con i PFAS
«La prima volta che l’azienda, tramite il medico di fabbrica, ci ha detto che c’era un problema, è stato intorno all’anno 2000. Dato che la Miteni era un’azienda che doveva rispettare la Direttiva Seveso, e quindi ogni anno facevano le analisi mediche ai lavoratori. Fu allora che ci parlarono di una scoperta avvenuta negli Stati Uniti che riguardava un inquinamento da PFOA nelle acque», racconta Ilario Ermetti, ex lavoratore dello stabilimento.
«Il medico aziendale ci disse che un’eventuale contaminazione non avrebbe comportato alcuna conseguenza per la salute. Sta di fatto che erano sostanze che non sarebbero dovute essere nel sangue e così hanno iniziato a farci le analisi a partire dal 2000. A ripensarci oggi, le cose sono due: o la dirigenza ha sottovalutato il rischio, oppure ha semplicemente deciso di ignorarlo. Nella seconda ipotesi, si tratterebbe di un comportamento criminale».
Ilario Ermetti, ex operaio e rappresentante sindacale della Miteni. Ha cominciato a lavorare alla Rimar nel 1979. Nel 2021 l’analisi del sangue ha evidenziato valori di 3440 ng/ml di PFOA. Ilario è parte civile al processo contro la Miteni. Valdagno, Vicenza.
I racconti degli operai che lavoravano alla Miteni dipingono un quadro che – con la consapevolezza ambientale di oggi – sembra appartenere a un passato fatto di incuria e superficialità. «Mi hanno assunto nel 1999 e per undici anni ho fatto il PFOA, mi occupavo dell’elettrofluorazione e già allora avevo notato che era tutto fuori norma. Tutti i rifiuti solidi venivano smaltiti irregolarmente, anche nel cassone in cui il personale che si occupava delle pulizie gettava i comuni sacchi neri delle immondizie», ricorda Stefano De Tomasi, ex operaio Miteni.
«I fanghi di lavorazione venivano accumulati in uno spazio nel piazzale esterno dell’impianto e, quando ce ne erano troppi, arrivavano due camion blu, li prendevano e li portavano via; non so dove. Ma pochi operai protestavano: lo stipendio era molto buono. Negli ultimi anni ci si dedicava per lo più al recupero degli scarti di lavorazione che provenivano da altre fabbriche, nei Paesi Bassi, oppure dalla Solvay di Alessandria. Noi producevamo PFOA, lo mandavamo ad Alessandria dove lo usavano. Gli scarti tornavano poi alla Miteni e da essi riuscivamo a recuperare PFOA. Alla Miteni, comunque, c’era anche personale della Solvay che si occupava della movimentazione di questi prodotti».
«Ricordo ancora il momento in cui ho iniziato ad avere paura», riporta De Tomasi, «ho visto un tasso che era andato a bere in una pozza d’acqua nel torrente che lambisce la fabbrica. Mi ricordo che lo guardavo affascinato. Il giorno dopo l’ho rivisto, accasciato sulla sponda del fiume. Era morto».
Quelle degli ex operai Miteni sono, spesso, esistenze al limite, segnate da una grande varietà di problemi di salute. Queste persone vivono senza sapere cosa succederà domani: aspettano e si domandano cosa possa comportare avere decine di migliaia di nanogrammi di PFAS nel sangue. Lo Stato non è stato in grado di fornire risposte e, soprattutto, non ha mai dato loro l’aiuto di cui avrebbero bisogno.
Stefano De Tomasi, 55 anni, ex operaio Miteni dal 1999 al 2010. Ha lavorato in aree dove si produceva PFOA (acido perfluoroottanoico), utilizzato come rivestimento impermeabilizzante per tessuti, pelle, carta e nella cera per pavimenti. Lui stesso, come lavoratore, ha contribuito all’inquinamento a causa della politica aziendale. I suoi livelli di PFAS nel sangue superano i 3000 ng/ml e soffre di depressione, colesterolo molto alto, pressione alta e diabete. Stefano è stato uno dei primi a costituirsi parte civile nel processo contro Miteni. Ottobre 2022. Valdagno, Vicenza.
Compensare le carenze del sistema sanitario
L’Associazione Medici per l’Ambiente (ISDE) di Vicenza ha organizzato uno studio sulla salute riproduttiva maschile per tutti i maschi maggiorenni nati a partire dal 1985 che risiedono o sono nati nella zona ad alto inquinamento da PFAS, definita dalla Regione Veneto “Area Rossa”. Il percorso è fatto da cinque accertamenti sanitari. Il primo sono le analisi del sangue, con particolare attenzione a glicemia, trigliceridi, colesterolo, vitamina D e ormoni maschili. Il secondo passaggio è lo spermiogramma. Il terzo passaggio è l’ecografia. Il quarto passaggio è la densitometria e, infine, il quinto è una visita fatta dagli specializzandi della Scuola di specializzazione di Urologia della Facoltà di Modena.
Lo studio, iniziato nel 2022, è autofinanziato da ISDE. L’indagine ha la peculiarità di avere reclutato persone dai comuni più colpiti e sta coinvolgendo centinaia e centinaia di individui. Uno degli obiettivi è superare, su vari piani, gli studi già condotti in Cina (su 800 persone) e in Danimarca (su 1031). Il successo nel reclutamento in Veneto è anche merito dell’attività di informazione dei gruppi ambientalisti.
«Ci teniamo molto a pubblicare i risultati dello studio, per avere una prova molto solida del collegamento tra danni alla fertilità ed esposizione ai PFAS. Finora tutti gli studi che ci sono nella letteratura internazionale sono stati condotti sulla popolazione generale. Noi invece stiamo portando avanti uno studio su popolazione contaminata dall’acqua potabile», illustra Francesco Bertola, medico, presidente ISDE Vicenza e promotore dello studio.
«C’è un probabile link tra esposizione a PFAS e l’ipercolesterolemia, le malattie alla tiroide, la rettocolite ulcerosa, l’ipertensione in gravidanza, il tumore al rene, il tumore al testicolo. Oggi si continua a usare l’aggettivo “probabile”. Tuttavia, nel 2018 la European Food Safety Authority (EFSA) ha pubblicato un rapporto in cui ha affermato il nesso di causalità, la qual cosa è ben diversa dalla probabilità. Questo nesso c’è tra PFAS e ipercolesterolemia, diminuita risposta anticorpale ai vaccini, aumento delle transaminasi e diminuzione del peso del neonato alla nascita. Tutto ciò è stato confermato nel 2020. Le evidenze sono solide».
La dott.ssa Iva Sabovic, 35 anni, biologa, analizza il liquido seminale con la Camera di Makler, che riesce ad avere un accurato conteggio degli spermatozoi. Unità Operativa di Andrologia e Medicina della Riproduzione, Azienda Ospedaliera dell’Università di Padova.
In una situazione come quella del Veneto, ci si aspetterebbe una risposta sanitaria nel momento in cui un individuo si rivolge al proprio medico di base, che fa da “porta d’accesso” al sistema sanitario. «Non è mai stata mai organizzata una formazione specifica per i medici di base. Sono sì coinvolti nel piano di sorveglianza: nel momento in cui una persona viene chiamata per fare gli esami del sangue, il referto viene inviato al medico di base. Se la persona presenta particolari condizioni, che possono essere associate all’esposizione a PFAS, a quel punto viene inviato a fare le visite specialistiche», illustra Francesco Bertola. «Tuttavia non mi sento di affermare che i medici di base siano coinvolti. Sarebbe auspicabile ma per ora non è così. D’altronde fino a poco tempo fa il piano di sorveglianza riguardava soltanto chi abita nell’”Area Rossa”».
Nel 2018, la comunità medica era pronta a far partire un’indagine a tutto campo, per stabilire eventuali correlazioni tra esposizioni a PFAS e alcune patologie. Secondo la testimonianza del dottor Pietro Comba, lo studio venne inspiegabilmente fermato. La ricerca delle motivazioni profonde di questo fallimento lascia intravedere scenari più che inquietanti.
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Nelle scuole per denunciare
Come già visto, è la cittadinanza che tenta di compensare alle mancanze del governo sia regionale che nazionale. È il caso delle attività di informazione nelle scuole delle aree colpite. Donata Albiero, ex dirigente scolastica, e suo marito, Giovanni Fazio, medico ISDE, hanno fondato l’associazione CILLSA, Cittadini per la Legalità, il Lavoro, la salute e l’Ambiente. L’associazione, insieme anche ad altre realtà dell’attivismo locale, si impegna in una serie di incontri nelle scuole per diffondere sempre più consapevolezza sul disastro.
«Poiché siamo un’associazione completamente autonoma e rispettosa della verità, non siamo entrati nelle scuole in maniera “neutra”: dovevamo denunciare anche il fatto che, per quanto riguarda la contaminazione che c’è stata e che c’è tuttora, ci sono delle gravissime responsabilità istituzionali, in particolare da parte della Regione Veneto. La Regione ha prima tollerato e facilitato la Miteni, non intervenendo, addirittura dando dei permessi anche dopo il 2013 per la costruzione di un camino», sostiene Giovanni Fazio. «La fabbrica ha chiuso grazie alla cittadinanza impegnata a ricercare la verità; di sicuro non grazie alle istituzioni. Ancora oggi, però, la questione di tutto il comparto conciario di Arzignano rimane in sospeso. Anche lì ci sono gravissime responsabilità. Nel corso delle nostre attività nelle scuole, molti presidi si sono preoccupati perché parlavamo “male” delle istituzioni».
Un incontro informativo con la cittadinanza sulla bonifica dell’ex sito Miteni-Trissino, organizzato dall’Assessorato dell’Ambiente. Lonigo, Vicenza.
«Ancora oggi molte persone rifiutano il fatto che un’area enorme del Veneto sia contaminata da PFAS. Ma è facile capire il perché di un tale “silenzio”», afferma Donata Albiero, «si tratta di un fenomeno che è diretta conseguenza di un costante negazionismo, portato avanti in maniera cosciente e accurata dalla classe politica e imprenditoriale. Per anni abbiamo assistito al tentativo di minimizzare, quando si sosteneva che il problema era risolto con la chiusura della fabbrica. Invece siamo di fronte a un problema sistemico, circolare, che permea tantissimi aspetti sociali e sanitari».
Come una doccia fredda
Come ricordato più volte, le iniziative per limitare la contaminazione dell’acqua inquinata da PFAS sono cominciate soltanto nel 2013, ovvero quando sono stati resi pubblici i risultati delle analisi svolte nei due anni precedenti. Tra le necessità immediate, vi era quella di far sì che la cittadinanza non bevesse più acqua contaminata. Tra le realtà che se ne sono occupate spicca Acque del Chiampo Spa, una società per azioni a capitale pubblico che gestisce il servizio idrico in gran parte dei territori colpiti.
Andrea Chiorboli, oggi Direttore Generale di Acque del Chiampo, ricorda molto bene il momento in cui ha ricevuto notizia dell’emergenza. «Era più o meno il giugno 2013, e giunse questa nota della Regione Veneto che anticipava l’esito del famigerato studio IRSA-CNR. Per noi le sostanze poli e perfluoro alchiliche erano, ai tempi, del tutto sconosciute. Anche a livello analitico, non determinavamo quel parametro e non avevamo nemmeno le capacità di determinarlo. Alle volte le autorità ci chiedono di svolgere approfondimenti su determinate sostanze, ma quella volta era diverso: si capiva che ci si trovava davanti a qualcosa di ben più grave», racconta Andrea Chiorboli mentre ripercorre quei momenti.
«Dovevamo trovare il modo di avviare una campagna di analisi su tutte le fonti, e dovevamo farlo in fretta. Ricordo che fu come una doccia fredda. Eravamo convinti della qualità delle acque e addirittura facevamo incontri nelle scuole per spiegare quanto fosse buona la nostra acqua».
I lavori per la costruzione della nuova rete idrica. Pressana, Vicenza.
I filtri a carbone e i loro limiti
«Per prima cosa, ci siamo attivati subito per dotarci di uno strumento per poter analizzare i PFAS. A luglio 2013 avevamo la strumentazione. Nacque quasi spontaneamente un comitato tecnico, per cercare di condividere le soluzioni tecnologiche per abbattere la presenza di PFAS nell’acqua. Questo comitato si è allargato coinvolgendo anche la Regione. Abbiamo implementato anche un sistema informativo per capire come venivano diffusi questi inquinanti attraverso le reti dell’acquedotto», racconta Andrea Chiorboli.
«La scelta di installare pressoché ovunque i filtri a carboni attivi venne presa quasi immediatamente. Si tratta di un sistema che è efficace per la gran parte dei PFAS. Tuttavia bisogna dire che un margine di incertezza rimane. I PFAS sono un insieme di tantissimi composti, molecole che si comportano in maniera diversa nei filtri a carbone. I filtri riescono a trattenere con efficacia i PFAS a catena lunga, come PFOA e PFOS. I composti a catena corta, invece, tendono a saturare il filtro molto più rapidamente. L’uso dei filtri a carboni attivi è abbastanza costoso, ed è per questo che lavoriamo per rigenerare i filtri esausti».
«Ci sono strutture che rigenerano i carboni grazie a un trattamento termico. Una delle ditte da cui ci si rifornisce è nella provincia di Pesaro-Urbino. Loro stessi si occupano della rigenerazione. Tuttavia, ci tengo a chiarirlo, quello dell’acqua potabile è solo uno dei problemi legati ai PFAS in Veneto. La falda contaminata si sposta, è soggetta a cambiamenti, ed è piena di PFAS. Per il momento non riesco a immaginare un futuro in cui il Veneto sia privo di PFAS nell’ambiente. Noi cerchiamo di fornire alla cittadinanza l’acqua senza PFAS, ma il problema è molto più profondo», conclude Chiorboli.
PFAS e inceneritori
Sottoporre i filtri saturi di PFAS alle alte temperature comporta anche altri problemi. Al momento, infatti, non si è in possesso di un inceneritore capace di raggiungere temperature tali da distruggere i PFAS. «In Veneto non c’è mai stato un inceneritore in grado di termodistruggere i PFAS. Si utilizzano tantissimi filtri a carboni, in quantità imprevedibili. A Legnago, in provincia di Verona, c’è un impianto con due forni dedicati per rigenerarli. Ma i carboni attivi devono essere bruciati a temperature troppo alte. Quello di Legnago non è un inceneritore per PFAS. Non ne esistono», afferma Stefano Polesello, ricercatore di IRSA-CNR e co-autore dell’indagine resa nota nel 2013.
«Cosa succede all’evaporato, ai PFAS che vengono rimossi dai filtri? A Legnano mancano completamente i monitoraggi e quelli fatti fino a oggi sono risibili. I materiali con PFAS che usiamo tutti i giorni vengono bruciati in un normale inceneritore oppure finiscono in discarica. I percolati delle discariche scendono nel sottosuolo, portando i PFAS con sé. I materiali bruciati rilasciano PFAS nell’aria. Si sta soltanto spostando il problema. Non sappiamo ancora quale possa essere una soluzione davvero efficace».
Roberto Petrocchi, rivenditore di acqua Fonte Lonera. Molti cittadini utilizzano l’acqua in bottiglia di vetro non solo per bere, ma anche per cucinare, fare il caffè, lavare i piatti, lavarsi i denti. Novembre 2022. Sovizzo, Vicenza.
Monitoraggi in autonomia
A Legnago la gente ha iniziato ad accorgersi che il trattamento dei filtri a carbone potrebbe essere un vero problema: i PFAS rimossi dall’acqua finirebbero nell’aria, spostandosi e adagiandosi sui terreni. Una persona che RADAR Magazine ha intervistato e che ha scelto di rimanere anonima ha criticato il fatto che ARPAV non si dedichi a un monitoraggio serio dei PFAS nei dintorni dell’inceneritore di Legnago. Per questo motivo ha scelto di agire per proprio conto, raccogliendo campioni, facendoli analizzare e confermando i sospetti: nell’aria di Legnago ci sono PFAS.
È un’altra delle tantissime iniziative organizzate dagli abitanti del Veneto, spesso all’avanguardia quando ci si deve ingegnare per intervenire su un problema. Basti pensare al GIS, la prima vera mappa digitale navigabile sulla contaminazione da PFAS, “dove ogni cittadino potrà verificare quanto inquinati siano il pozzo, la risorgiva, il fiume, le acque in prossimità della propria casa, del proprio orto, le stesse acque con cui si irrigano i campi e si allevano gli animali”.
Le assurde vicende legate alla contaminazione da PFAS in Veneto possono essere viste come un esempio – tanto profondo quanto complicato – dell’impreparazione umana nell’affrontare situazioni di inquinamento diffuso, senza assecondare per forza l’interesse economico. Nel giugno 2019 la fabbrica ex Miteni è stata acquistata dalla società indiana Viva Life Sciences Private Limited. L’azienda, con sede legale nei Paesi Bassi, ha trasferito l’intero impianto in India, a 80 chilometri a sud di Mumbai. I PFAS continueranno a essere prodotti là. Serviranno a varie realtà per fabbricare gli stessi oggetti d’uso quotidiano, contamineranno altre persone. Il disastro veneto racchiude tutti gli elementi di una “economia circolare” deviata, pericolosa, e che non riusciamo a cambiare.
Ilario Ermetti, 67 anni, ex operaio e rappresentante sindacale della Miteni, dove ha iniziato a lavorare nel 1979. Nel 2021 le analisi del sangue hanno evidenziato la presenza di valori di 3440 ng/ml di PFOA. È ora parte civile nel processo contro Miteni. Valdagno, Vicenza.
Leggi la nostra inchiesta sull’inquinamento da PFAS
Questa inchiesta è parte di The Forever Pollution Project, un’indagine crossborder a cui hanno partecipato 18 redazioni da tutta Europa. Un gruppo che oltre a RADAR Magazine include Le Monde (Francia), Süddeutsche Zeitung, NDR e WDR (Germania), The Investigative Desk e NRC (Paesi Bassi) e Le Scienze (Italia), e a cui si sono aggiunti Datadista (Spagna), Knack (Belgio), Deník Referendum (Repubblica Ceca), Politiken (Danimarca), Yle (Finlandia), Reporters United (Grecia), Latvijas Radio (Lettonia), SRF Schweizer Radio und Fernsehen (Svizzera), Watershed e The Guardian (Regno Unito).