Quando è iniziato l’Antropocene?

La metamorfosi che abbiamo imposto al pianeta ha radici ben più lontane dell’uso dei combustibili fossili. Ricostruire il punto di partenza dell’Antropocene ci aiuta a comprendere l’impatto che avevamo sull’ambiente già migliaia di anni fa.

10 minuti | 2 Giugno 2023

Illustrazioni di Daniela Germani

L’Antropocene è uno di quei concetti-specchio in cui ognuno vede qualcosa di sé. Era geologica, metafora, iperoggetto viscoso in cui ci dibattiamo, decidete voi. Ma il succo di tutte le possibili definizioni sembra facile: è l’epoca in cui l’umanità è diventata la forza dominante sulla Terra. E che forza siamo, adesso. Un terzo di tutte le terre emerse è occupato da pascoli, coltivazioni o città; il clima sta cambiando a una velocità pressoché inedita negli ultimi 65 milioni di anni; abbiamo rischiato di annientare lo strato di ozono; la massa delle strutture create dall’uomo ora supera quello degli esseri viventi. Meno chiaro è quando sia partita questa metamorfosi. La nostra impronta sul pianeta potrebbe essere più profonda, nel tempo, di quanto pensiamo. 

 

Un chiodo d’oro per l’Antropocene

Gli scienziati che ragionano sull’Antropocene parlano di un’epoca geologica, e le epoche hanno un inizio molto concreto. Nel calendario dei geologi, i confini temporali della storia della Terra sono letteralmente conficcati nella roccia come la spada di re Artù. Il loro nome tecnico è GSSP, Global boundary Stratotype Sections and Points, cioè sezioni e punti stratigrafici globali, ma i geologi le chiamano semplicemente golden spikes, “chiodi d’oro”. In realtà non sono né chiodi né tantomeno d’oro, ma sono comunque placche metalliche, poste su strati rocciosi che unanimemente segnano il passaggio globale da un’epoca alla successiva. In Italia, tra parentesi, ce ne sono un bel po’. L’inizio del Pleistocene, per esempio, è definito da un golden spike sul Monte San Nicola vicino a Gela, in Sicilia. 

Dove lo mettiamo, il chiodo d’oro dell’Antropocene? Nella proposta originaria di Paul Crutzen – il chimico dell’atmosfera che nel 2000 rese celebre il concetto, con la pubblicazione del saggio “Benvenuti nell’Antropocene!” – l’inizio dell’Antropocene coincide all’incirca con la Rivoluzione industriale, quando il nostro intervento divenne predominante in miriadi di componenti del sistema Terra, dall’anidride carbonica ai cicli dell’azoto. Da lì in poi si dibatte su quale segnale usare per marcare l’inizio dell’epoca. L’idea più famosa è usare le tracce degli isotopi radioattivi rilasciati dalle prime esplosioni nucleari, ma è stato proposto di tutto, incluse le ossa di pollo.

Dove lo mettiamo, il chiodo d’oro dell’Antropocene?

 

L’anomalia dell’agricoltura

Fin da subito però ci fu chi propose che, in realtà, il chiodo andasse conficcato ben più indietro nel tempo. Nel 2003 William Ruddiman, paleoclimatologo all’Università della Virginia, suggerì che l’impatto climatico dell’umanità fosse già visibile tra 8000 e 6000 anni fa. Ruddiman notò che, in quel periodo, gas serra come il metano e l’anidride carbonica, in calo fino a quel momento, erano ritornati lentamente a salire. Deviando dall’andamento guidato dai cicli naturali del clima (a loro volta causati dalle oscillazioni dell’orbita e inclinazione terrestre). 

Non c’erano macchine a vapore che bruciassero carbone, nel tardo Neolitico. Ma questa anomalia coincide con un evento epocale nella storia della civiltà umana: l’espansione dell’agricoltura. Intere civiltà iniziarono a disboscare le proprie foreste per lasciare spazio ai campi coltivati, liberando la CO2 che era immagazzinata negli alberi. In Asia, le prime coltivazioni di riso avrebbero rilasciato metano in atmosfera (come fanno tuttora).

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Si tratta di un’ascesa assai più lenta di quella, verticale, che osserviamo negli ultimi due o tre secoli. Ma non è stata meno gravida di conseguenze, avverte Ruddiman. È vero: millenni fa, questo lento sbilanciamento dei gas serra non era in grado di far schizzare le temperature verso l’alto come invece avviene oggi. Ma era già abbastanza per rallentare il raffreddamento, e interrompere il ciclo glaciale-interglaciale. Secondo i cicli astronomici, oggi infatti dovremmo assistere all’inizio di una nuova glaciazione. Dovremmo vedere ghiacciai nati 5000 anni fa guadagnare terreno nel nord del Canada. Così non è stato. In altre parole, secondo Ruddiman il clima della Terra era già artificialmente caldo quando Cheope faceva costruire la Grande Piramide di Giza. 

Meglio dirlo chiaramente: si tratta di un’ipotesi controversa. Non è affatto chiaro se, come sostiene Ruddiman, l’aumento di questi gas in epoca pre-industriale sia da imputare in gran parte alle attività umane. Ad ogni modo, a Ruddiman va dato il merito di aver introdotto l’idea che l’avvento dell’Antropocene possa essere collocato più indietro nel tempo. 

Sabbia tra le dita

È il clima l’unico criterio per riconoscere l’Antropocene? Mutare la composizione dell’atmosfera è di sicuro un effetto che altera l’intero sistema Terra, ma non è il solo segnale a grande scala della nostra presenza. In generale, gli esseri umani sono definiti costruttori di nicchie: ingegnerizziamo l’ambiente per renderlo più abitabile per noi – o almeno, più abitabile per noi sul breve termine. Non lo facciamo solo noi, ma siamo di gran lunga la specie in cui questa attività è più pervasiva. La nostra presenza sul pianeta è quindi una incessante operazione di graduale terraformazione, di modifica del pianeta per plasmarlo ai nostri bisogni.

L’agricoltura e la pastorizia hanno cambiato completamente l’aspetto dei paesaggi in tutto il globo.

La nostra principale operazione di terraformazione è l’agricoltura. Da quando abbiamo scavato il primo solco sulla terra per piantarvi dei semi, passando da cacciatori-raccoglitori ad agricoltori, la nostra impronta sul pianeta non si è più cancellata. Dunque, potrebbe essere proprio il suolo a restituirci il primo segno netto dell’Antropocene: lo proposero già nel 2011 due ricercatori italiani, Giacomo Certini e Riccardo Scalenghe dell’Università di Palermo. Ne troviamo le tracce in suoli artificiali come la Terra Preta amazzonica, resa nera dal miscuglio di carbone, letame e ossa animali usato come concime 1000-2500 anni fa; i plaggen soils del Nord Europa medievale (ma anche dei Māori); le coltivazioni a terrazze del Mediterraneo o dell’America precolombiana sono solo alcuni esempi. 

Più in generale, l’agricoltura e la pastorizia hanno cambiato completamente l’aspetto dei paesaggi in tutto il globo. Sotto la spinta della deforestazione, l’erosione del suolo – di norma governata dai cicli naturali – è diventata globale a partire da 4000 anni fa circa, come testimoniato dall’analisi di sedimenti lacustri in tutto il globo. E dall’anno Mille, l’erosione causata dall’uomo ha superato definitivamente la media naturale degli ultimi 541 milioni di anni. 

 

Montagne calve

Lo sapeva bene chi assisteva a questa transizione. Già nel IV secolo a.C, Platone scriveva delle colline devastate dell’Attica nel dialogo Crizia:

A quel tempo invece, quando era integra, aveva per monti colline e levate e ricche di terra grassa, le pianure oggi dette di Felleo, e sui monti aveva vasti boschi, dei quali sussistono testimonianze visibili ancora oggi. E di quei monti ve ne sono alcuni che attualmente forniscono nutrimento soltanto alle api […] Vi crescevano, numerosi, alti alberi coltivati, ma fornivano anche pascoli inesauribili per il bestiame. Inoltre ogni anno godeva dell’acqua che veniva da Zeus, e non la perdeva, come avviene ai nostri giorni, quando scompare defluendo via dalla terra spoglia fino al mare; poiché ne aveva in abbondanza la accoglieva nel suo seno, la teneva in serbo nella terra argillosa e impermeabile.

E così il filosofo Mencio, in Cina, 300 anni prima di Cristo, citava il disboscamento nella parabola della Montagna del Bue:

Ci fu un tempo dove gli alberi lussureggiavano sulla Montagna del Bue. Ma come accade nei dintorni di una grande metropoli, gli alberi sono costantemente falciati dalle asce. Deve meravigliarci che non stiano più bene? […] Non mancano certo i germogli, ma le mucche e le pecore li brucano dalla montagna. Per questo è così calva. La gente, vedendola calva, pensa che non abbia mai avuto alcun albero. Ma può essere questa la natura della montagna?

C’è un problema, volendo definire l’Antropocene a partire dai suoli: l’uso del terreno da parte degli esseri umani non è un processo che avviene contemporaneamente in tutto il pianeta. In altre parole, tra gli strati di rocce non è possibile individuare una discontinuità, sincrona e globale, in cui poter piantare il nostro chiodo d’oro. Per esempio, a livello globale l’erosione viene dominata dall’attività umana a partire da circa 3500-4000 anni fa. Tuttavia, in Cina questa transizione si verificò già 5000 anni fa. Se vogliamo attenerci a una definizione geologica dell’Antropocene, ci troviamo col dilemma di un’epoca che inizia in momenti diversi in luoghi diversi. 


Un’impronta senza fine

Gli sconvolgimenti del clima e dei suoli sono temporanei. Se domani svanissimo, in poche centinaia di migliaia di anni tutto tornerebbe come prima. Altre, e più eterne, potrebbero essere le vere conseguenze della nostra esistenza. Numerose epoche geologiche coincidono con rivoluzioni biologiche, tanto da essere spesso definite dall’assenza o presenza dei cosiddetti fossili guida. La nostra epoca non è da meno.

Gli esseri umani hanno avuto due grandi impatti sulla biosfera. La prima è l’estinzione di massa tuttora in corso, che iniziò plausibilmente tra 50.000 anni fa e 25.000 anni fa. Quando la nostra specie umana si espanse fuori dall’Africa, iniziammo a sterminare i grandi animali, principalmente mammiferi, che incontrammo: la cosiddetta megafauna. 

Benché ci sia un costante dibattito sulle responsabilità nell’estinzione di varie specie, è un fatto che le ondate principali di estinzione coincidano con la colonizzazione dei continenti da parte di Homo sapiens, più che con cambiamenti climatici. Con l’arrivo dell’uomo, in Australia l’86% di tutti i generi con specie oltre i 44 kg di peso scomparve tra 45.000 e 20.000 anni fa, mentre nella vicina, ma disabitata, Nuova Zelanda, non ci fu praticamente nessuno sconvolgimento fino all’arrivo dell’uomo nel 1200 dopo Cristo. Dopo di che, in un paio di secoli, scomparvero tutte le oltre 13 specie di moa, i grandi uccelli non volatori che dominavano l’ecosistema. Lo stesso accadde in Madagascar, in cui pochi secoli dopo l’arrivo dell’uomo svanirono i sette più grandi generi di primati, tutti gli uccelli elefante (di nuovo, enormi uccelli non volatori) e due specie di tartarughe giganti, oltre a vari altri mammiferi. Dal tardo Pleistocene, gli esseri umani sono stati il principale fattore nelle estinzioni di mammiferi. 

Numerose epoche geologiche coincidono con rivoluzioni biologiche. La nostra epoca non è da meno.

In parallelo, a causa dell’agricoltura e del disboscamento, la composizione della vegetazione è cambiata drasticamente sul pianeta a partire da 4600-2900 anni fa: una transizione che supera in grandezza perfino i mutamenti dovuti alla transizione tra era glaciale e postglaciale.

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Mescolamento globale

Con il nostro continuo espanderci e spostarci sul pianeta, abbiamo iniziato il secondo grande mutamento globale nella biosfera: mescoliamo specie in tutto il pianeta. Questo fenomeno è stato chiamato dallo scrittore scientifico Charles C. Mann l’omogenocene: l’era in cui, con l’arrivo degli europei nelle Americhe, è ricominciato un flusso ininterrotto di specie tra le sponde dell’Atlantico, dopo milioni di anni di quasi totale isolamento. Patate, tabacco, tacchini, api europee, riso, mais, galline, oche canadesi, grano e molti altri hanno scavalcato l’oceano in una e nell’altra direzione, e con loro numerose specie patogene o parassite. Ironicamente, il cavallo – estinto da migliaia di anni assieme al resto della megafauna nordamericana, probabilmente da mano umana – venne poi reintrodotto con la colonizzazione.

L’omogeneizzazione degli ecosistemi, tuttavia, iniziò ben prima di quando Colombo mise piede a Hispaniola nel 1492. Specie come i ratti, i maiali, i cani, i gatti e numerosi animali da allevamento si sono diffusi nel globo assieme all’uomo, rendendo isole e continenti più abitabili per noi, ma meno per le specie che li abitavano in precedenza. La colonizzazione delle isole del Pacifico da parte dei polinesiani ha diffuso piante come il taro e la banana, nonché almeno 17 piante introdotte accidentalmente, ben prima dell’arrivo degli europei. 

La colonizzazione delle Americhe sembra un ottimo punto, però, dove piantare il chiodo d’oro dell’Antropocene. È un evento che ha lasciato tracce in gran parte del pianeta, contemporaneamente o quasi. Coincide con un piccolo ma netto calo della CO2 in atmosfera intorno al 1610, probabilmente causato, almeno in parte, dal temporaneo crollo delle attività agricole in Sudamerica, che permise alle foreste di ricrescere e assorbire carbonio. Coincide inoltre con la comparsa di pollini prima assenti in varie regioni del globo: pollini di mais in Europa, per esempio.

 

Il fiume dell’Antropocene

A differenza degli altri impatti sul sistema Terra, estinzioni e rimescolamenti della biosfera sono completamente irreversibili: la fauna del pianeta non sarà mai più la stessa. Nuove specie potranno evolversi e prendere il posto di quelle scomparse, ma si tratterà di altre specie. Specie separate da sempre ora si trovano a convivere e competere. L’evoluzione della vita sulla Terra è stata ed è tuttora irrimediabilmente alterata dalla specie umana, per tutti i milioni di anni a venire. 

Il concetto di Antropocene è stato creato per portare chiarezza con logica perfino ingenua: siamo una forza geologica inedita, quindi serve una nuova epoca geologica per definire la nostra epoca. È diventato però, forse, un concetto che genera confusione. Cerchiamo di mettere insieme le esigenze dei geologi, a cui serve una definizione formale, reperibile negli strati sedimentari, e quelle delle altre discipline, a cui serve una definizione di Antropocene che ci aiuti a comprendere e descrivere il nostro impatto sul pianeta. 

Forse è necessario leggere l’Antropocene in modo diverso da quello dei geologi, in cui si delinea un singolo e netto spartiacque. Possiamo immaginarlo come il corso di un grande fiume, che possiede sì una sorgente definita, ma che nasce pur sempre da un rivolo irrilevante. Chilometro dopo chilometro, è l’acqua stessa a scavare ed espandere l’alveo fino ad alterare completamente il paesaggio intorno a esso, fino a dominarlo. In questo senso, l’Antropocene è la storia stessa della nostra specie e della sua relazione col mondo naturale. In che mare si getterà dobbiamo ancora deciderlo.

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    Daniela Germani è geologa specializzata in paleontologia e illustratrice appassionata di tematiche naturalistiche e ambientali.
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    Massimo Sandal è uno scrittore e giornalista scientifico. Ha conseguito un dottorato in Biofisica sperimentale a Bologna e uno in Biologia computazionale ad Aquisgrana, dove vive tuttora. Dal 2011 collabora con varie testate, con un occhio di riguardo alla pratica e sociologia della scienza, e più di recente anche alla crisi ecologica in atto. Nel suo primo libro, La malinconia del mammut (Il Saggiatore 2019), esplora storia, scienza e cultura dell’estinzione dei viventi.

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