Alzi la mano chi non ricorda l’immagine della Luna – e l’impressione che gli fece – la prima volta che la vide al telescopio. Era come aprire gli occhi per la prima volta, e ricevere la prima luce. Gli astronomi chiamano proprio così la prima immagine di un nuovo telescopio: prima luce. È un momento molto atteso da scienziati, ingegneri e tecnici che hanno lavorato per progettarlo e costruirlo, quasi un rito propiziatorio per la sua futura attività scientifica.
L’avvento di strumenti più potenti ha sempre provocato uno spostamento delle conoscenze, determinando cambi di paradigma sull’interpretazione dell’universo, accompagnati da spiazzanti riformulazioni della nostra rappresentazione interiore del cosmo: quel miscuglio di immagini, elaborazioni e concezioni a cui attinge l’immaginario astronomico personale. Proprio come la prima visione della Luna al telescopio avrà cambiato per sempre la vostra idea della Luna, le nuove osservazioni si inseriscono su quel solco, arricchendo il repertorio dell’immaginario.
Per riconoscere il potenziale immaginifico di strumenti da poco entrati in funzione, come il telescopio spaziale James Webb della NASA, ripercorriamo la storia delle prime luci dei telescopi che più hanno contribuito a plasmare l’immaginario cosmico collettivo.
L’UNIVERSO A MANO LIBERA
L’esordio stesso dell’astronomia come scienza dell’osservazione del cielo è la storia di una prima luce: quella ottenuta da Galileo attraverso il suo primo cannocchiale, compiendo il gesto semplice e rivoluzionario di puntarlo verso il cielo stellato. Chissà che impressione dovette fare a lui la prima visione della Luna. Nel 1609 all’estremità del sottile tubo ottico i suoi occhi videro cose mai viste prima: si affrettò a divulgarle pubblicando il Sidereus Nuncius, con le descrizioni illustrate delle sue osservazioni.
Per fortuna Galileo aveva una buona mano, e introdusse nella memoria collettiva i disegni della superficie della Luna, le fasi di Venere, le macchie solari, le lune di Giove, ammassi di stelle come le Pleiadi e il Presepe. Tutti ottenuti con il “telescopio più grande del mondo” da appena 1,5 cm di apertura e 20 ingrandimenti. Fa impressione constatare quanto un uomo solo, a mano libera sia nel puntare il cannocchiale – peraltro scomodissimo – che nel realizzare i disegni, abbia saputo cambiare la nostra visione dell’universo. Non è un caso che 400 anni dopo, nel 2009, l’Unione Astronomica Internazionale e l’UNESCO abbiano voluto ricordarne l’importanza dedicando proprio alla prima prima luce – vero patrimonio della cultura mondiale – l’Anno Internazionale dell’Astronomia.
IL TELESCOPIO CON L’UOMO DENTRO
I risultati di Galileo rimangono ancora oggi il termine di paragone assoluto per l’impatto dei telescopi moderni. Solo in pochissimi casi si è sprecato il paragone: nemmeno per il mitico telescopio di Monte Palomar, una delle icone dell’astronomia del Novecento. Per chi come me è cresciuto appassionandosi alle stelle negli anni Ottanta, quello di Monte Palomar era l’osservatorio astronomico per eccellenza.
La Nebulosa Variabile di Hubble. Fonte: Caltech/Palomar Observatory.
Con i suoi 5,08 metri di diametro, il telescopio Hale di Monte Palomar fu il più grande del mondo dal 1948 al 1976. Vide la prima luce il 26 gennaio 1949 sotto la direzione del grande astronomo Edwin Hubble, osservando NGC2261, la Nebulosa Variabile di Hubble. Era un oggetto che conosceva bene, scelto per dimostrare le capacità dello strumento, nonostante il suo obiettivo di ricerca fosse misurare le distanze delle galassie, con cui intendeva estendere la verifica della sua legge che descrive l’espansione dell’universo.
Lo stesso Hubble notava che «sfortunatamente le immagini più interessanti per gli astronomi (quelle che ritraggono gli oggetti più distanti) diventano le meno spettacolari, una volta stampate». Tuttavia un articolo dell’epoca riporta che «queste prime osservazioni hanno già sospinto gli orizzonti dell’universo osservabile da 500 a 1000 milioni di anni luce. […] Indicano chiaramente che il telescopio è in grado di svolgere il lavoro per cui è stato concepito».
Fra l’identificazione dei quasar come sorgenti lontanissime e il riconoscimento del primo asteroide interplanetario, ‘Oumuamua, la sfida più singolare del telescopio di Monte Palomar all’immaginario comune fu la trasformazione del suo rapporto con l’astronomo. Il ricercatori non accostava più l’occhio all’oculare, ma doveva addirittura entrare dentro il telescopio, salendo con uno speciale ascensore fino al piano focale, dove collocava le lastre fotografiche, a un’altezza di ben 24 metri.
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PRIMA LUCE NELLO SPAZIO
Nel 1990 un telescopio di “soli” 2,4 metri stabilì la nuova frontiera delle osservazioni astronomiche, e lo fece salendo nello spazio, oltre le turbolenze dell’atmosfera terrestre, per inaugurare un’epoca che ha profondamente cambiato il nostro modo di conoscere e immaginare i corpi celesti. Era il telescopio spaziale Hubble (HST): l’importanza della sua uscita dall’atmosfera fu paragonata al gesto di Galileo, e si disse che per la prima volta un telescopio avrebbe avuto un impatto confrontabile solo a quello del primo cannocchiale. Era stato progettato per misurare le distanze di galassie lontanissime, con cui determinare la costante di Hubble, quindi l’età dell’universo.
Non a caso le sue osservazioni di supernove extragalattiche condussero, nel 1998, a un’inattesa rivoluzione nella cosmologia: la scoperta dell’energia oscura che sta accelerando l’espansione dell’universo. In 33 anni di servizio, HST ha contribuito a risolvere il mistero dei lampi gamma, ha osservato i primi pianeti extrasolari, le lenti gravitazionali degli ammassi di galassie, e i suoi campi profondi di galassie (Hubble Deep Field, Ultra Deep Field ed Extreme Deep Field) hanno spinto lo sguardo e l’immaginazione umana verso le vertiginose profondità del cosmo.
La prima immagine del telescopio spaziale Hubble, a confronto con un’osservazione da Terra delle stesse stelle. Fonte: a sinistra, E. Persson (Las Campanas Observatory, Chile)/Observatories of the Carnegie Institution of Washington; a destra, NASA, ESA e STScI.
Palette astronomiche
Ancora oggi, HST resta il maggiore artefice dell’immaginario astronomico contemporaneo. Ha prodotto immagini iconiche, tanto potenti da trasfigurare l’immaginazione del pubblico sui corpi celesti, anche grazie a un sapiente uso delle palette di colori, secondo codici scientifici che finiscono per divenire canoni estetici. Le sue osservazioni svelano diversi piani di profondità: così nebulose e galassie, che prima apparivano appiattite, si percepiscono come volumi – come la Testa di Cavallo, grazie all’orlo di luce che ne definisce il profilo.
Molte sono ormai stampate nella nostra memoria, tanto che artisti di tutto il mondo le hanno rielaborate secondo la loro sensibilità per rivisitare il nostro rapporto estetico ed emotivo con il cosmo. L’esempio più inconfondibile sono i Pillars of Creation, una porzione della nebulosa Aquila il cui ritratto ha conquistato copertine, pubblicità, film e, appunto, l’immaginazione di tutti.
A dispetto del fantasmagorico repertorio di forme e colori che ci ha lasciato, la prima luce di HST – funestata peraltro da una grave aberrazione ottica, che sarà riparata in orbita solo tre anni dopo – non aveva nulla di speciale. Nessuno se la ricorda: un test tecnico per verificare la risoluzione del telescopio, eseguito sulla stella doppia HD96755. A un’immagine così priva di carisma, nessuno avrebbe saputo immaginare quali meraviglie sarebbero seguite.
AGUZZARE LA SUPERVISTA
Il 12 luglio 2022, a coronamento di un’attesa durata oltre 15 anni, sono state finalmente pubblicate le prime immagini scientifiche del telescopio spaziale James Webb (JWST): non una ma ben cinque prime luci (un ammasso di galassie, un gruppo di galassie, una nebulosa, una nebulosa planetaria, lo spettro di un esopianeta), che rivelano la straordinaria qualità, la varietà di tecniche e obiettivi di ricerca del nuovo osservatorio orbitante, progettato per studiare il cosmo nell’infrarosso. Per l’occasione NASA ed ESA hanno organizzato un vero show intercontinentale, con conferenze stampa simultanee in diversi Paesi, precedute da un rigidissimo embargo e addirittura dal colpo di scena della rivelazione a sorpresa di una delle cinque immagini dal presidente americano Joe Biden.
Rispetto a HST 30 anni prima, si nota una traslazione di significato nella pubblicazione delle prime luci di JWST, dal dato tecnico a quello scientifico, ancor più nella scelta di soggetti dal forte richiamo mediatico e nella coreografia del rito della prima luce. Una chiara evidenza di quanto, oltre al dato informativo, alle agenzie spaziali interessasse colpire il pubblico anche sull’aspetto immaginativo.
L’astronomo italiano Massimo Stiavelli, capo del progetto JWST per la NASA, era consapevole dell’aspettativa elevatissima attorno alle immagini da svelare. In un’intervista al Planetario di Roma sulla differenza tra osservare l’universo con HST e con JWST dichiarò: «È come quando Superman attiva la supervista. Con JWST possiamo vedere l’invisibile: sarà come riscoprire tutti i corpi celesti che ci sono familiari, con uno sguardo nuovo».
I ritratti della sontuosa galassia a spirale M74, detta galassia fantasma, ottenuti dai telescopi spaziali Hubble (a sinistra) e James Webb (a destra) propongono due letture di notevole impatto visivo dello stesso corpo celeste, ma assai diverse fra loro sia per il contenuto scientifico che come ispirazione per l’immaginario. Al centro, una sintesi fra le due trasforma ulteriormente la percezione della galassia. Fonte: ESA/Webb, NASA & CSA, J. Lee and the PHANGS-JWST Team; ESA/Hubble & NASA, R. Chandar; acknowledgement: J. Schmidt.
DALLA PRIMA LUCE ALLA PRIMA OMBRA
Sconfinando fino alle frequenze delle onde radio, una prima luce che è passata direttamente alla storia è quella dell’Event Horizon Telescope (EHT). È piuttosto una prima ombra: quella celeberrima del colossale buco nero al centro della galassia M87. L’immagine è peculiare sotto ogni aspetto: non è un’immagine nel senso fotografico bensì un’elaborazione sintetica del segnale radio registrato da una rete coordinata di radiotelescopi ampia quanto la Terra intera, e ha richiesto due anni di lavoro per essere completata, nel 2019. La foto del secolo, come fu subito ribattezzata, non è una foto, ma è talmente singolare, significativa e in fondo semplice nell’aspetto da entrare di diritto tra le immagini fondative dell’immaginario collettivo sui buchi neri.
IL CANTO DEI BUCHI NERI
Prima ancora di farsi vedere, i buchi neri si erano fatti sentire. Nel 2016 infatti era stata rivelata la prima osservazione di un’onda non più elettromagnetica, ma gravitazionale, classificata GW150914: un’onda che si propaga nello spaziotempo in conseguenza della fusione fra due buchi neri, avvenuta a oltre 1300 milioni di anni luce. Per misurarne il passaggio, smorzato dalla distanza, è stato necessario costruire LIGO, un sistema di interferometri dai bracci lunghi 4 km. È come avere inventato un nuovo organo di senso per percepire le onde gravitazionali.
Il crescendo finale dell’onda, nell’ultimo secondo prima della collisione tra i buchi neri, ha un andamento distintivo, la firma della fusione. Se convertito in un’onda sonora, all’ascolto produce il buffo fischio di un chirp: una specie di algido cinguettio. È il canto dei buchi neri, e corrisponde alla versione acustica della prima luce di un telescopio gravitazionale, alla quale abbiamo potuto associare, come appiglio per l’immaginazione, soltanto le simulazioni dei due buchi neri che si fondono, avvitandosi uno intorno all’altro come gli occhi strabici di un barbagianni.
Il chirp della prima onda gravitazionale osservata da LIGO. Fonte: B. P. Abbott et al., LIGO Scientific Collaboration and Virgo Collaboration, Phys. Rev. Lett. 116, 061102.
ACCENDERE LE PRIME LUCI
Dopo essere stati esposti in pochi anni a questa multiforme sequenza di prime luci – e altre ancora che non abbiamo considerato – che debordano oltre il nostro spettro sensoriale, non resta che domandarci come appariranno ai nostri occhi ansiosi di novità le prime immagini dei super-telescopi del futuro, come Giant Magellan Telescope, Extremely Large Telescope, LISA, ancora lontani dall’entrare in funzione.
Chissà quali saranno fra 20, 50 o 100 anni le prossime icone pop dell’astrofisica, quali corpi celesti conquisteranno le vetrine più popolari, facendo sognare intere generazioni. Ma di una cosa possiamo essere certi: alla prima luce di ogni nuovo osservatorio, sulla Terra o nello spazio, si risveglierà l’istinto di esplorazione dell’essere umano, attivando la capacità di orientarsi davanti alle nuove forme della realtà, per dare senso alle sconosciute trame del cosmo, suscitando una volta di più il senso della meraviglia. Una di più verso l’infinito. Fino a catturare, in una prima luce del futuro, quella delle stelle più antiche, che emisero la prima luce dell’universo.