Dall’aereo, Pucallpa appare di colpo dopo una serie di pascoli, campi riarsi e dolorose ferite nel verde. Con quasi 300 mila abitanti, la città più popolosa dell’Amazzonia peruviana è un reticolo di cuadras color mattone, adagiate come un mosaico di terra, cemento e asfalto lungo le sponde sinuose del Rio Ucayali. Se non fosse per aver visto prima la selva dall’alto e per le chiazze di vegetazione brillante che traboccano negli incolti e al bordo delle carreggiate, uscendo dall’aeroporto si potrebbe pensare di essere in una città qualunque del Perù, con i suoi scheletri di edifici incompiuti e il traffico incessante di autocarri e mototaxi che fin dal mattino affollano e impolverano le strade.
Pucallpa non è la città più turistica dell’Amazzonia, e lo è ancora meno nella stagione delle piogge. Visitarla a febbraio suggerisce una ragione precisa: lavoro, affari, esplorazioni ben preparate in quella che a tutti gli effetti è una nuova frontiera dell’economia estrattiva e del legname. Ma febbraio è anche il mese in cui, a pochi chilometri da Pucallpa, nei pressi della cittadina di Yarinacocha che orla le sponde della laguna omonima, si svolge il Mundialito.
Trentadue squadre femminili e ottanta maschili, impegnate in un torneo di 16 giorni a eliminazione diretta, danno vita al campionato indigeno di calcio più importante dell’intera Amazzonia peruviana. L’etnia più rappresentata è quella degli Shipibo-Conibo, a cui appartengono gli organizzatori del campionato. Ma tra gli ospiti figurano anche squadre di altre popolazioni, come Ashaninka, Yines, Kakataibo, e quelle di comunità Shipibo inurbate provenienti dai quartieri popolari di Lima e Huanuco. Un vero e proprio mosaico di culture indigene che qui si ritrovano per condividere non solo una passione sportiva, ma anche musiche, balli, discussioni e convivio nei comedores, le cucine popolari tradizionali allestite a ridosso di un campo da gioco strappato alla selva, a cui si arriva superando villaggi di palafitte, pontili e strade di terra rossa che le piogge trasformano spesso in acquitrini e torrenti.
Il porto lacustre di Yarinacocha. La laguna di Yarinacocha è stata originata da un’ansa del Rio Ucayali e occupa una superficie di circa 1400 ettari. Oltre a essere un’importante oasi di biodiversità, la laguna ospita numerose comunità shipibo-conibo, che vivono di pesca, caccia, artigianato e piccole attività turistiche.
Mundialito, un campionato autogestito
Il Mundialito, che quest’anno giunge alla trentesima edizione, inizialmente non si chiamava così e neppure aveva queste dimensioni. Nato come semplice torneo interscolastico da un’idea di Alejandro Ruíz López, professore di educazione fisica, il campionato è cresciuto nel tempo oltre qualsiasi previsione degli organizzatori, passando dalle otto squadre iniziali alle centododici di quest’anno e guadagnandosi a buona ragione il titolo di Mundialito amazzonico.
Il merito di questo successo non si deve né agli sponsor né ai soldi. Modesto, infatti, è il premio in denaro per i vincitori, messo in palio grazie alle piccole quote pagate dalle squadre per partecipare al torneo. E pochissimi – tutti locali – sono gli sponsor che contribuiscono alla competizione. La promozione e l’organizzazione del Mundialito rappresentano piuttosto un esempio efficace di autogestione popolare, fatta di passaparola, condivisione e comunicazione su radio comunitarie e reti sociali.
«È cominciato tutto per gioco, con l’intenzione di unire con il gioco le comunità della zona», afferma Ruíz López. «E ora ci ritroviamo a organizzare il maggiore campionato di calcio indigeno del Paese, da soli, con mezzi modesti e molta volontà».
E in effetti, dopo qualche ora a bordo campo, ci si rende conto che tutto si regge su un’organizzazione povera di risorse materiali, ma abilissima nel mettere insieme energie ed entusiasmo. La tribuna è allestita con assi di legno e lamiere. Le linee del campo devono venir tracciate di nuovo ogni giorno, per vincere i rivoli delle piogge torrenziali.
Ciononostante, il programma delle partite fluisce impeccabile. Si gioca, con brevi pause, dalle nove del mattino alle cinque del pomeriggio. Le terne arbitrali si alternano con diligenza professionale. Le squadre si riscaldano tra alberi e cespugli, entrando puntuali in campo. E intanto, prosegue infaticabile il lavoro dei cronisti, cioè dei narradores e delle narradoras, come vengono chiamati qui. La loro cronaca, degna delle migliori radio e televisioni latinoamericane, è un concerto pirotecnico di modulazioni vocali, motti salaci, frizzi e giochi di parole declinati secondo lo stile particolare di ciascun cronista.
La cerimonia di apertura del campionato. La cerimonia di apertura è un momento importante del campionato, in cui i rappresentanti indigeni si incontrano per sancire le relazioni di amicizia e collaborazione tra le varie comunità. Danze, convivio e spettacoli caratterizzano questo momento di festa.
A Radio Pucallpa si parla del Mundialito. I programmi radio prevedono la presenza, a fianco del conduttore che parla in spagnolo, di un traduttore in lingua shipibo.
Emancipazione e incontro
Le donne rivestono un ruolo importante nelle comunità indigene e ciò si rivela anche nella cospicua presenza di tifose e giocatrici. A qualche anno dalla scelta di integrarle nel campionato, le squadre femminili sono infatti più che raddoppiate, arrivando all’apprezzabile quota di trentadue. A colpire, è il fatto che le donne giochino per lo più scalze, incuranti delle buche e del fango. Ed è curioso vederle sbarcare dai mototaxi accompagnate da caroselli di bambini e familiari. Più che le squadre maschili, del resto, sembrano quelle femminili a unire nel tifo le comunità di origine. E si intuisce subito che il calcio per loro serve anche a ribadire altro: un modo di stare sullo stesso piano degli uomini e rivendicare un’eguaglianza sociale e politica che di fatto è sempre maggiore nelle comunità.
«Siamo qui per giocare il campionato al pari degli uomini, non per imitarli», afferma una giocatrice della Comunità di San Francisco, un villaggio sulla laguna di Yarinacocha. Data l’importanza che la sezione femminile si è guadagnata negli anni, sembra impossibile oramai pensare al calcio in questa parte di Amazzonia senza la presenza delle donne.
Campionato di calcio femminile. La squadra della comunità di San Francisco festeggia il passaggio alle semifinali.
La capacità di integrare tutti i membri delle comunità in un evento di festa, in cui il piacere dell’incontro prevale sulla competizione, sembra del resto essere una cifra del campionato. Al punto che qualche antropologo si è spinto ad affermare che in qualche modo il Mundialito possa aver raccolto lo spirito di comunanza dell’Ani Sheati, l’antica festa della nazione Shipibo-Conibo che riuniva annualmente tutte le comunità e prevedeva festeggiamenti e complessi rituali di iniziazione.
Un’ipotesi suggestiva e non priva di basi reali, che però deve fare i conti con una realtà profondamente mutata. I membri delle comunità indigene, oggi, si dividono sempre di più tra selva e città, mescolando aspetti della vita comunitaria e tradizionale a elementi delle vita urbana, in un equilibrio spesso precario e contraddittorio. Se qualcosa resta dell’Ani Sheati, non è certo una memoria diretta, ma un bisogno di riconoscersi e ritrovarsi, radicato in strutture familiari e comunitarie che rapidamente stanno cambiando e che tuttavia conservano i segni di un’identità condivisa, accomunata da una relazione ancora viva con la foresta.
Salvaguardare la selva
Jeiser è giornalista, conduttore radiofonico e traduttore. Di origine shipibo, si è sempre interessato alle questioni indigene, contribuendo, assieme ai fratelli, all’organizzazione del Mundialito fin dalle sue origini. Dopo tanti anni di peripli avventurosi come giornalista di cronaca, nei meandri più remoti dell’Amazzonia, è tornato a Pucallpa, diventando una voce assai nota di Radio Nacional. È lui a occuparsi delle traduzioni in shipibo di giornali radio e altri programmi radiofonici. E, sempre come traduttore, Jeiser collabora da tempo con Casa Ametra, un’associazione nata con il fine di conservare la cultura e la lingua shipibo.
«Una comunità è viva finché ha una lingua con cui esprimersi», mi dice, mentre sorseggiamo un’infusione di muña, una pianta officinale andina, in attesa che si plachino i temporali. «Ma, assieme alla lingua, devono esserci una visione condivisa e un insieme di relazioni reali. Insomma, occorre una società che collabora. Sono convinto che il Mundialito possa contribuire a rafforzare il dialogo e la cooperazione tra le diverse comunità e tra gli stessi membri delle comunità».
A osservare l’entusiasmo e la partecipazione che circondano il campionato, la convinzione di Jeiser sembra fondata. Infatti, il Mundialito condensa in sé significati che vanno ben oltre l’evento sportivo, e molti tra gli organizzatori ne sono coscienti. La regione amazzonica è divenuta da tempo terreno di conquista per colossi dei settori minerario, agroalimentare e petrolifero, nonché scenario di traffici illeciti di ogni tipo. In questo contesto, il futuro delle comunità indigene – nelle cui culture si rintraccia ancora un modo sostenibile di vivere la selva, irriducibile e per molti versi opposto ai modelli predatori imposti dalle élites urbane – appare infatti sempre più legato alla loro capacità di riconoscersi e valorizzarsi, e di creare un fronte comune rispetto a forze centrifughe e distruttive di enorme potenza.
Il Rio Ucayali è uno dei maggiori fiumi amazzonici e, assieme al Rio Marañon, uno dei bracci principali del Rio delle Amazzoni, a cui si unisce nei pressi della città di Iquitos. Sulle sue rive vivono numerose comunità appartenenti a varie etnie.
Il Mundialito e lo sport dei colonizzatori
In questa prospettiva anche il calcio, e più in generale lo sport popolare, può essere utile, e gli organizzatori del Mundialito lo sanno benissimo. «Giocare a calcio è un modo sano e allegro di stare insieme, che valorizza le nostre comunità», rammenta ancora il fondatore del campionato, Ruíz López. E la sua convinzione sembra trovare riscontro in una passione sempre più diffusa per questo sport in tutta la regione, al punto che, come ricorda un giocatore della comunità di Loreto, «nei villaggi talvolta può mancare una chiesa, ma mai una cancha de futból [un campo da calcio]».
Certo, è curioso che a raccogliere le comunità native attorno a una passione e a una visione condivisa non siano più rituali ancestrali come l’Ani Sheati, ma uno degli sport dei conquistatori e colonizzatori per antonomasia. Eppure, in questa contraddizione c’è anche la straordinaria alchimia dei processi sociali e culturali: la capacità di sovvertire e ricombinare il significato originario dei fenomeni egemonici e integrarlo nel proprio mondo in una prospettiva differente, volta all’autodeterminazione e alla valorizzazione di sé. Una lezione che risulta utile anche in altri contesti. E che ricorda, in fin dei conti, come l’identità e la resistenza alla disgregazione possano costruirsi anche attraverso il gioco.
Una partita del campionato di calcio maschile. Il campionato maschile ospita numerose squadre provenienti da tutta l’Amazzonia peruviana, ma anche da alcune regioni dell’Amazzonia boliviana e colombiana. In questa sezione l’agonismo è più acceso, anche se la competizione non compromette lo spirito di festa e cooperazione che contraddistingue il Mundialito.