Molti anni fa mi trovavo a Bellisio Solfare, una piccola frazione del Comune di Pergola, nelle Marche, e ricordo chiaramente di essermi chiesto il perché di quel nome così particolare. Lo stesso sicuramente sarà capitato a chi è passato per San Lorenzo in Zolfanelli, in Via La Miniera, a Urbino. I toponimi parlano chiaro, raccontando una storia ormai lontana nel tempo e nell’immaginario, ma che per diversi decenni ha scandito i ritmi di vita di questi territori: la stagione delle miniere di zolfo.
A cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, un’estesa area geografica del centro Italia costituiva una delle zone di estrazione di zolfo più importanti d’Europa. I siti di estrazione erano decine, Formignano e Perticara in Romagna, Cabernardi e San Lorenzo in Zolfinelli nelle Marche e moltissimi altri siti minori, di cui oggi sopravvive qualche traccia.
I più antichi documenti che testimoniano attività estrattive in questi territori risalgono addirittura al 1047. All’epoca, lo zolfo veniva usato soprattutto in agricoltura e medicina, oppure come combustibile. In seguito, con l’invenzione della polvere pirica e successivamente con l’utilizzo diffuso dell’acido solforico, la richiesta di zolfo crebbe fino a stimolare un’industria fiorente.
Sotterraneo della Miniera di Perticara, 1925. Archivio storico Ido Rinaldi.
Miniera di Formignano, 1905-1906: forni gill lato monte e capannone dei doppioni. Fondo G. Brasa – Biblioteca Malatestiana. Elaborazione e ritocco D. Fagioli – Società di Ricerca e Studio della Romagna Mineraria.
Sottosuolo ricco, territori poveri
Per molti anni l’Italia è stato uno dei principali produttori al mondo, grazie a giacimenti localizzati soprattutto in Sicilia e nel bacino di Marche e Romagna. Il motivo geologico dell’abbondanza di zolfo è la presenza della formazione gessoso-solfifera, dovuta a una lunga fase di evaporazione del Mediterraneo avvenuta intorno ai 6 milioni di anni fa.
La formazione geologica si sviluppa principalmente lungo la dorsale appenninica, in territori che nei secoli scorsi erano economicamente depressi. «Malgrado il loro verdeggiante aspetto, siamo in una delle zone più povere d’Italia, le alte Marche» raccontava Gino Pontecorvo nel suo documentario Pane e zolfo del 1956, girato in seguito alla chiusura di gran parte delle miniere di zolfo di Marche e Romagna.
Nell’entroterra del centro Italia, la presenza di zolfo nel sottosuolo appariva come l’unica strada possibile per generare ricchezza. Fu così che nel giro di pochi anni, nel diciannovesimo secolo, vecchi e nuovi siti di estrazione assunsero sembianze industriali, aumentando esponenzialmente dimensioni e capacità produttiva.
Pani di zolfo. Solfare di Pergola-Bellisio. Foto di Bruno Stefani.
L’ambiente estremo delle miniere di zolfo
Le tecniche per estrarre il minerale erano tutto sommato arcaiche, seppure coadiuvate da un enorme impiego di mezzi e dalla progressiva introduzione di nuove tecnologie. Il sistema di estrazione era simile per tutte le miniere: uno o più pozzi, profondi fino a diverse centinaia di metri, davano accesso al sottosuolo, dove si sviluppava una rete di tunnel disposti su più livelli, con gallerie che seguivano i “filoni” dove si poteva trovare il minerale.
I livelli erano collegati dalle discenderie, gallerie fortemente inclinate, e da condotte di areazione, in un ecosistema artificiale estremamente complesso e ostile. Una volta estratto, il materiale grezzo veniva posizionato nei carrelli e trasportato in superficie grazie ad argani a vapore. Si passava quindi alla “cottura”: il materiale veniva riscaldato in grandi fornaci circolari nelle quali, sfruttando la bassa temperatura di fusione dello zolfo (circa 112 °C), veniva separato dalla roccia.
Miniera di Formignano, 1904-1905: costruzione dei forni gill lato monte. Fondo G. Brasa – Biblioteca Malatestiana. Elaborazione e ritocco D. Fagioli – Società di Ricerca e Studio della Romagna Mineraria.
Miniera di Formignano, 1904-1905: il capannone dei doppioni. Fondo G. Brasa – Biblioteca Malatestiana. Elaborazione e ritocco D. Fagioli – Società di Ricerca e Studio della Romagna Mineraria.
Le miniere di zolfo più grandi erano delle vere cittadine al confine tra il mondo sotterraneo e la superficie, con centinaia di dipendenti e ritmi frenetici. Quella di Perticara, per esempio, si sviluppava per quasi 100 chilometri, su 9 livelli; quella di Cabernardi aveva 27 livelli e raggiungeva una profondità di 800 metri.
In questi ambienti estremi, tra rotaie e carrelli, mine per aprire nuove gallerie, temperature altissime, basse concentrazioni di ossigeno, migliaia di lavoratori prestavano ogni giorno servizio.
Vita nelle miniere di zolfo
Ardenio Ottaviani è lo storico dell’Associazione culturale La Miniera, nata a Cabernardi per promuovere la valorizzazione del patrimonio culturale e umano collegato alla miniera di zolfo. Ardenio è figlio di Luigi, diventato minatore a 15 anni.
Quante persone lavoravano a Cabernardi?
«Dai miei calcoli, basati sui registri dei dipendenti, in totale più di 6 mila persone hanno lavorato dentro la miniera. Il numero massimo si è toccato nel 1947, quando furono impiegati circa 1830 dipendenti per ricostruire la struttura danneggiata dai nazisti».
Un notevole impatto positivo in termini di occupazione.
«Si ripete sempre che le miniere di zolfo hanno portato nei territori molta ricchezza, ma spesso si dimentica a quale prezzo. Nel momento esatto in cui sono nato, mio padre era in miniera. E oltre alla grande quantità di tempo dedicato, gli operai lavoravano in condizioni davvero estreme, con temperature tra i 29 e i 42 gradi e il rischio costante di crolli».
Miniera di Formignano, anni ‘50 del 1900: lavoro in galleria. Archivio Ing. Ordan. Elaborazione e ritocco D. Fagioli – Società di Ricerca e Studio della Romagna Mineraria.
Quali erano i maggiori rischi durante i turni?
«Le frane erano gli inconvenienti più disastrosi e costituivano la maggior parte degli incidenti. Uno dei lavori più pericolosi era quello dei disgaggiatori, coloro che dovevano far cadere la parte di roccia pericolante dopo l’esplosione delle mine utilizzate per aprire le nuove gallerie. In settant’anni di storia ci sono stati 150 morti e secondo i dati, con una media di due infortuni al giorno, tra tutte le miniere della zona il posto peggiore dove lavorare negli anni ‘30 era proprio Cabernardi».
E c’è una spiegazione?
«La mia ipotesi è che, lavorando a cottimo, fosse la fretta la causa principale. La maggior parte degli infortuni erano piccoli, frutto di distrazioni a volte banali. Un minatore di perticara scrisse che non si può lavorare a cottimo in miniera, perché il pericolo è sempre dietro l’angolo e non si può fare a gara».
La miniera ha cessato l’attività estrattiva nei primi anni ‘50. Come si è arrivati in così poco tempo da 1830 dipendenti alla chiusura?
«A fine anni ‘40 le nostre miniere erano arretrate, a causa dell’assenza di investimenti da parte della Montecatini, che all’epoca gestiva il sito. La concorrenza dello zolfo statunitense, estratto in modo diverso e molto più redditizio, diede il colpo di grazia. Così la vita della miniera che aveva dato oltre 1.650.000 tonnellate di materiale estrattivo, la più produttiva d’Europa, giunse rapidamente al termine».
Nel 1952 la Montecatini notificò agli operai 860 lettere di licenziamento, questo portò a una massiccia protesta sindacale, culminata con l’occupazione della miniera per quaranta giorni.
Nonostante la mobilitazione, il destino della miniera era ormai segnato e il sito di Cabernardi fu progressivamente smantellato fino al 1960, anno in cui la società proprietaria riconsegnò le concessioni al Comune di Sassoferrato.
Da miniera a parco nazionale
Oggi la miniera di Cabernardi fa parte, insieme alla vicina Percozzone, a quelle di Urbino, Perticara e Marazzana, e alla raffineria di Bellisio Solfare, del Parco Nazionale dello Zolfo di Marche e Romagna ed è oggetto di una serie di progetti di valorizzazione.
Cesena 1934: lo zolfo Montecatini alla prima edizione della settimana cesenate. Archivio Ing. Ordan-Foto E.Tartagni – Forlì/Cesena. Elaborazione e ritocco D. Fagioli – Società di Ricerca e Studio della Romagna Mineraria.
«Al momento tutte le strutture visitabili sono sostanzialmente quelle in superficie, legate alla lavorazione, ma stiamo lavorando per riaprire anche un tratto sotterraneo», spiega Patrizia Greci, presidente e fondatrice dell’associazione La Miniera. «Le cose da qualche anno sono cambiate, mete come la nostra stanno diventando gettonate dal punto di vista turistico. Un esempio è il villaggio dei minatori, costruito nel 1917 dalla Montecatini per ospitare gli operai immigrati da altre zone d’Italia. Per anni è stato un luogo simbolo dell’abbandono delle miniere, oggi si sta trasformando in una destinazione turistica, immersa in un contesto naturalistico e culturale ricco di proposte. In questo modo si prova a recuperare almeno in parte quello che lo zolfo aveva distrutto».