Ci sono storie che hanno il sapore della vittoria. Storie che se ci guardi dentro vedi il buio dell’estinzione e la tenacia della rinascita. Con la rubrica “Per un pelo”, la naturalista e giornalista scientifica Francesca Buoninconti ci racconterà alcune delle più incredibili storie di animali scampati all’estinzione grazie a visionari progetti di conservazione.
La storia di questa prima puntata ci riguarda da vicino: è la storia del più grande ed elegante avvoltoio europeo. È la storia del gipeto barbuto e del suo ritorno sulle Alpi.
La prima storia che vi racconterò in questa rubrica ci tocca da vicino, e no, non riguarda un carismatico predatore, né qualche altra specie pucciosa. Sarebbe stato troppo scontato. Questa è la storia del più grande ed elegante avvoltoio europeo: è la storia del gipeto barbuto e del suo ritorno sulle Alpi.
Lo spaccaossa mangiatore di spade
Gli avvoltoi non hanno mai goduto di ottima fama. Sono sempre stati guardati con sospetto, come portatori di sventura e morte. Ma al gipeto barbuto (Gypaetus barbatus) è andata anche peggio: è stato accusato – a torto, neanche a dirlo – di essere un temibile ladro di agnelli e persino di bambini, non solo dagli allevatori, ma anche dal naturalista tedesco Gotthilf Heinrich Von Schubert. «Il gipeto possiede una forza incredibile, tale da riuscire a trasportare con facilità da una montagna all’altra agnelli, capre e addirittura bambini tenendoli nei suoi artigli». La realtà è che il gipeto, con quei suoi artigli, al massimo trasporta ossa e… tartarughe, come vuole la tradizione.
Il gipeto barbuto infatti è un necrofago (come gli altri avvoltoi), cioè si nutre di carcasse. O meglio, il 90% della sua dieta è fatta di ossa: ne mangia fino a 200 kg in un anno e le ingoia intere, come un mangiatore di spade, grazie all’assenza del gozzo e alla parete dell’esofago indurita da cheratina. Insomma, è un adorabile e utilissimo spazzino.
E se nel “piatto” c’è un osso troppo lungo, lo lascia prima cadere da grandi altezze per poi, una volta frantumato, ingoiarlo comodamente. Non a caso il suo nome spagnolo è “quebrantahuesos”, lo “spaccaossa”, un nome che farebbe invidia a un lottatore di wrestling. E secondo la tradizione il gipeto farebbe lo stesso con le tartarughe: il drammaturgo Eschilo sarebbe morto proprio per via di una tartaruga piovuta dal cielo, mollata sulla sua testa da un gipeto in volo per romperne il guscio.
Spaccaossa, killer di drammaturghi greci e ladro di bambini. Vittima della cattiva nomea, il gipeto fu perseguitato e il suo declino divenne inevitabile.
Killer e ladro di bambini
Quegli occhi di ghiaccio e la sua barbetta ispida e nera (da qui barbuto), però, nascondono una grazia sorprendente per un avvoltoio. Come dice il nome (dal greco gyps = avvoltoio e aetos = aquila), il gipeto ha un corpo più snello e ali più strette rispetto agli altri suoi parenti, che lo rendono più agile: non ha bisogno di prendere la rincorsa per spiccare il volo come gli altri avvoltoi e, con la sua apertura alare di circa 3 metri, governa il vento come fosse un’aquila. Ed è anche un tipetto vanitoso: il suo ventre sarebbe naturalmente coperto da un piumaggio candido, ma i gipeti adulti amano fare il bagno in accumuli di terra ricca di sali di ferro, tingendosi le penne di un color ruggine.
Spaccaossa, killer di drammaturghi greci e ladro di bambini. Vittima della cattiva nomea, il gipeto fu perseguitato e il suo declino divenne inevitabile. La legge sulla caccia del 1875 lo classificava come specie nociva e per il suo abbattimento lo Stato elargiva persino dei premi. Questa persecuzione diretta, insieme alla caccia indiscriminata degli ungulati selvatici e l’uso di bocconi avvelenati destinati ai mammiferi predatori, ne ha determinato l’estinzione sulle Alpi. Qui, l’ultimo gipeto è stato abbattuto il 29 ottobre del 1913 da un cacciatore bergamasco in Val d’Aosta. E oggi le sue spoglie tassidermizzate riposano nel Museo regionale di scienze naturali Efisio Noussan (chiuso al pubblico per lavori), nel castello di Saint-Pierre, arroccato tra vigneti e coltivazioni di mele.
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Il ritorno del gipeto
Oggi sulle Alpi volano circa 300 gipeti e se questo spazzino è tornato a mostrarsi lungo l’arco alpino è grazie a un progetto internazionale visionario e agli sforzi costanti di uno sparuto gruppo di ornitologi che a questa specie ha dedicato la vita.
Per scoprire la storia di questo successo nella biologia della conservazione, dobbiamo fare un passo indietro. Più di 50 anni fa, l’assenza del gipeto sulle Alpi era un affare molto dibattuto tra l’allora direttore del Parco Nazionale del Gran Paradiso, Francesco Framarin, e l’ornitologo francese di chiara fama Paul Geroudet. Così, agli inizi degli anni ‘70, su richiesta di Framarin, Georudet produsse una serie di relazioni sulla possibile reintroduzione di 5 specie scomparse dalle Alpi. Tra queste c’era il gipeto. Lo studio fu quindi sottoposto anche all’IUCN e nel 1973 il rilascio dei primi gipeti approvato.
da kabul alle alpi
L’incarico viene affidato a Paul Geroudet e al suo collega Gilbert Amigues: due provano a scrivere ad alcuni zoo di Kabul, in Afghanistan, dove risiede un’ampia popolazione di gipeti. Dopo lunghi carteggi, non si sa bene come, i due ornitologi riescono a liberare alcuni gipeti, adulti e immaturi, nell’Alta Savoia. È il 1974, ma il tentativo fallisce miseramente: i giovani sono inesperti, gli adulti non sembrano ambientarsi, qualcuno di loro muore, altri forse non erano più fertili e altri probabilmente erano persino dello stesso sesso.
Oggi sulle Alpi volano circa 300 gipeti e se questo spazzino è tornato a mostrarsi lungo l’arco alpino è grazie a un progetto internazionale visionario e agli sforzi costanti di uno sparuto gruppo di ornitologi che a questa specie ha dedicato la vita.
Ma la scintilla che porterà al ritorno del gipeto sulle Alpi si è appena accesa: si punta a correggere il tiro del progetto di reintroduzione del gipeto, per riportare la specie nei luoghi del suo areale storico. E grazie alla tenacia di una rete di esperti, nel 1978 nasce il Bearded Vulture Reintroduction Project, che prosegue ancora oggi ed è attualmente coordinato dalla Vulture Conservation Foundation. Inizialmente vengono coinvolte la Francia, la Svizzera e l’Austria.
Solo qualche anno dopo,si aggiunge anche l’Italia. Il progetto mira a ricreare una popolazione alpina di gipeti barbuti che sia in grado di autosostenersi, ovvero riprodursi e alimentarsi senza l’intervento dell’uomo, crescendo demograficamente, e che si espanda sul territorio naturalmente, diventando una meta-popolazione, connessa con gli ultimi gipeti sopravvissuti sui Pirenei e in Corsica, per ricostruire così quel corridoio tra Africa ed Europa che era già occupato dal gipeto nei secoli passati.
Un progetto complesso
L’obiettivo è molto ambizioso: per prima cosa si studia la fattibilità, i luoghi idonei per i rilasci che verranno fatti negli anni a venire. Ma soprattutto si cambia metodo. Innanzitutto, d’ora in avanti sulle Alpi verranno rilasciati solo giovani gipeti allevati dalla rete di zoo e allevamenti che fanno parte della Bearded Vulture captive breeding network, inclusa nel programma europeo per le specie minacciate (European Endangered species Programme – EEP). E, seconda cosa, tutti i rilasci avverranno con la tecnica dell’hacking: all’età di circa 90-100 giorni, i giovani gipeti nati in cattività vengono trasportati nel sito di rilascio.
Qui vengono adagiati in una nicchia sulle rocce insieme ad altri 1-2 pulcini e, visto che non sono ancora in grado di volare, restano sorvegliati dagli esperti che forniscono ogni tanto – senza farsi vedere – anche del cibo, finché i giovani spiccano il volo e raggiungono la loro completa indipendenza, imparando a trovare cibo da soli.
Un miracolo che si ripete
Finalmente, otto anni dopo quell’idea nata nel 1978, i primi giovani gipeti nati in cattività sono pronti per tornare in natura. Il primo rilascio viene fatto in Austria, nel 1986. L’anno dopo si passa all’Alta Savoia, poi alla Svizzera, al Parco nazionale del Mercantour e a quello delle Alpi Marittime nel 1994. I rilasci continuano, ma bisognerà aspettare 11 anni per avere la prima reale buona notizia: sul massiccio francese di Bargy, in Alta Savoia, si è schiuso il primo uovo di gipeto barbuto.
È il 1997 e a quasi 85 anni dalla sua estinzione locale, il gipeto barbuto torna a nidificare sulle Alpi. E il miracolo, anno dopo anno, comincia a ripetersi. Dopo il primo lieto evento, nel 1998 nasce anche il primo gipeto italiano, in Valdidentro (SO), nel cuore del Parco Nazionale dello Stelvio, che da questo momento in poi diventa la culla dei gipeti d’Italia (oggi nei suoi dintorni risiede il 55% della popolazione nazionale).
Il gipeto barbuto, però, non è ancora del tutto al sicuro.
Il piombo, nuovo nemico per il gipeto
Le nascite crescono esponenzialmente, il progetto funziona, e un altro fondamentale traguardo viene raggiunto intorno al 2013, quando i gipeti nati in natura per la prima volta sono più di quelli allevati in cattività e rilasciati. Cento anni dopo l’ultimo abbattimento documentato di gipeto sulle Alpi, questo avvoltoio è tornato ad avere una popolazione autonoma vitale. Ma senza la perseveranza nei rilasci e nei monitoraggi un tale risultato non sarebbe mai stato raggiunto.
Il gipeto barbuto, però, non è ancora del tutto al sicuro. Per questa specie protetta, il pericolo più grande è rappresentato dal saturnismo: l’avvelenamento da piombo. Questi avvoltoi che si nutrono regolarmente di carcasse, sono esposti al rischio di intossicazione a causa di schegge e frammenti di proiettili che si possono trovare nei visceri degli animali abbattuti dai cacciatori che ancora utilizzano il piombo.
E i numeri, come si legge sull’ultimo bollettino di InfoGipeto, sono preoccupanti: uno studio condotto dal Parco dello Stelvio dal 2010, ha rilevato che su 90 individui recuperati di gipeto, grifone, avvoltoio monaco e aquila reale, circa il 60% mostrava livelli di piombo nello scheletro o negli organi interni dalle 5 alle 60 volte superiori ai normali valori fisiologici. La soluzione al problema è più facile di quanto si creda: sul mercato già esistono proiettili alternativi completamente atossici. La prossima sfida, dunque, sarà convincere i cacciatori di avifauna e di mammiferi a utilizzarli. Ed è quello a cui punta la petizione “Stop al piombo sulle Alpi”.