Più di 300, finora. Tanti sono i focolai di influenza aviaria noti in Italia. Si trovano per lo più in Lombardia e Veneto, ma l’allerta è alta in tutto lo Stivale e nel resto d’Europa non va meglio. A rischio è la sopravvivenza di interi allevamenti e di conseguenza tutta la filiera che coinvolge il pollame domestico: dai polli alle galline ovaiole passando per tacchini e faraone.
La lista delle specie colpite dall’influenza aviaria – provocata soprattutto dal virus H5N1 – è lunga e comprende anche gli uccelli selvatici: cigni, oche, gabbiani, gazze, germani reali. Proprio l’avifauna acquatica ospita buona parte dei virus dell’influenza aviaria ma questo, come ricorda l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe), preoccupa di meno.
La vera emergenza è la sfilza di puntini sparsi in tutta Europa che si vedono chiaramente in queste mappe: decine di focolai sia tra i selvatici che negli allevamenti, costati la vita già a milioni di esemplari.
Come è gestita l’influenza aviaria
La gestione dell’influenza aviaria ad alta patogenicità (HPAI, high pathogenicity avian influenza) non si limita al monitoraggio. «Parliamo di depopolamento, ma anche di blocco dell’uscita degli animali dalle aziende infette, pulizia e disinfezione degli allevamenti, definizione di una zona attorno al focolaio dove vengono applicate misure di restrizione alla movimentazione» riassume Anna Duranti, responsabile della diagnostica generale per le Marche dell’Istituto zooprofilattico dell’Umbria e delle Marche (Izsum). «Alla conferma della presenza di un’infezione da virus ad alta patogenicità, gli animali devono essere abbattuti per evitare la sua diffusione. Faccio presente che tutte le operazioni di abbattimento avvengono nel rispetto delle norme di benessere animale».
Oltre all’abbattimento, il danno economico consiste nella restrizione alla movimentazione di animali e prodotti, continua l’esperta: «Nella filiera avicola la produzione richiede tempi molto stretti per l’accasamento dei pulcini, per la consegna delle uova prodotte e per la macellazione degli animali da carne. Sono operazioni che devono avvenire in tempi precisi e non possono essere rimandate, se non con danni economici enormi». Tuttavia, il blocco degli spostamenti è necessario. Come ricorda l’Organizzazione mondiale della sanità animale (Oie, Office International des Epizooties), quelli dell’influenza aviaria sono virus a RNA particolarmente resistenti che possono sopravvivere per molto tempo e a lunghi tragitti.
Accanto alle misure emergenziali, quella della sorveglianza è la principale arma contro l’influenza aviaria.
Come quelli compiuti dagli uccelli migratori, il serbatoio naturale dei virus. «In assenza di emergenze, la sorveglianza per l’influenza aviaria tiene proprio conto di questo – riprende Duranti – ovvero, per ogni Regione si eseguono controlli sulla base del rischio calcolato anche in base alla presenza di uccelli migratori, oltre che sugli animali da allevamento presenti nel territorio». Così che, accanto alle misure emergenziali, quella della sorveglianza è la principale arma contro l’influenza aviaria.
Come nasce una zoonosi
Emergenza animale, ma non solo: l’influenza aviaria è considerata a tutti gli effetti un problema anche di sanità pubblica, al punto che l’Organizzazione mondiale della sanità stila periodicamente un bollettino con valutazioni del rischio di influenze alla cosiddetta interfaccia uomo-animale. Infatti, i virus influenzali che normalmente infettano gli animali possono colpire, di tanto in tanto, anche gli esseri umani. Il più delle volte il contagio avviene attraverso il contatto diretto con gli animali stessi o con ambienti e oggetti contaminati e può causare difficoltà respiratorie lievi, tosse e febbre, sintomi gastrointestinali.
Tuttavia, in alcuni casi la situazione può degenerare con disfunzioni d’organo, polmoniti, sovra-infezioni e portare anche al decesso della persona infetta. Succede con i virus che colpiscono principalmente i volatili – non solo H5N1, ma anche sottotipi diversi come H5N6 e H9N2 – e con quelli che circolano tra i suini.
Casi di influenza suina [da non confondere con la cosiddetta peste suina africana, che rimane un problema esclusivamente del comparto zootecnico dato che il virus responsabile non si trasmette all’uomo] continuano a essere intercettati nell’uomo con sottotipi diversi: H1N1, H1N2 e H3N2. E, ricorda l’Oms, continueranno a esserlo: ad oggi, la probabilità di trasmissione da uomo a uomo per questi virus rimane bassa, ma fintanto che i virus continueranno a circolare negli animali è lecito attendersi casi di infezioni nell’interfaccia uomo-animale.
Veterinario controlla maiali in un allevamento. Foto di dusanpetkovic/iStock.
Perché la sanità animale e quella umana devono collaborare
All’inizio dell’anno è stato segnalato in Inghilterra un caso di influenza aviaria in un uomo che aveva contatti regolari e prolungati con uccelli infetti. L’infettato sta bene e non ci sono indizi di trasmissione da uomo a uomo.
Ma il caso inglese – e la manciata di altri che si registrano nel mondo – dimostra che le influenze aviarie e suine sono sempre in agguato. «È necessaria una vigilanza continua nelle aree interessate e in quelle limitrofe per intercettare infezioni negli animali e negli esseri umani – sottolinea l’agenzia sanitaria britannica – La collaborazione tra sanità animale e umana è essenziale». Anche e soprattutto alla luce del rischio pandemico associato ai virus influenzali: i virus cambiano – il coronavirus ce lo ha ricordato fin troppo bene – e mutando possono diventare più infettivi o aggressivi.
L’approccio One Health
Ma non solo: esiste il rischio che essi si ricombinino con virus tipicamente umani dando origine a ceppi che possono diffondersi da uomo a uomo. «Un’eventualità che darebbe una dimensione del tutto nuova al fenomeno» ha dichiarato alla Reuters Monique Eloit, direttrice generale dell’Oie, aggiungendo: «Questa volta siamo di fronte a una situazione più difficile e più rischiosa perché stiamo osservando l’emergere di più varianti, e ciò rende difficile tenerne traccia».
Tutti i veterinari sono invitati a vaccinarsi contro l’influenza e a seguire le norme di prevenzione basilari, come l’utilizzo di sistemi di protezione individuale, tanto in allevamento quanto nei laboratori. È per questa ragione che il piano pandemico influenzale PanFlu prevede tavoli di lavoro che coinvolgono tanto la componente medica quanto quella veterinaria, ricorda Duranti.
Perseguendo, idealmente, l’approccio One Health ovvero la filosofia secondo la quale la salute umana non può prescindere da quella degli animali e dell’ambiente.
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Rabbia, peste e le altre zoonosi con cui facciamo i conti oggi
Le influenze sono solo una delle tante costellazioni della galassia delle zoonosi, cioè le malattie che, dagli animali, possono raggiungere l’uomo, spesso attraverso percorsi tutt’altro che lineari. Non tutte, per fortuna, hanno potenziale pandemico. Secondo l’OMS sono oltre duecento le zoonosi note, causate da virus, batteri e parassiti vari.
Credere che interessino solo chi si avvicina all’interfaccia uomo-animale – come i professionisti sanitari – è ingenuo e fuorviante poiché, chi più e chi meno, tutti noi entriamo in contatto di continuo con vari animali. E dunque anche con i loro patogeni, che non necessariamente causano malattia nei loro ospiti. Gli animali li mangiamo, teniamo in casa cani e gatti (e pure compagni meno tradizionali), viviamo e abitiamo nei loro stessi ambienti.
La giusta distanza
Alle volte lo facciamo fin troppo, spingendoci dove non dovremmo, con la distruzione degli habitat o con il consumo di carni selvatiche. In questo modo azzeriamo la distanza di sicurezza tra noi e loro, aumentando così il rischio di infezioni zoonotiche, ammonisce ancora l’OMS. Lo scoppio della pandemia provocata da Sars-CoV-2 ce lo ha dolorosamente ricordato, malgrado sul coronavirus restino in ballo ipotesi diverse, dall’origine naturale che chiama in causa pipistrelli e altri animali, a una (più improbabile) ingegnerizzazione artificiale.
Credere che le zoonosi interessino solo i professionisti sanitari è ingenuo e fuorviante: tutti noi entriamo in contatto di continuo con vari animali. Gli animali li mangiamo, teniamo in casa cani e gatti (e pure compagni meno tradizionali), viviamo e abitiamo nei loro stessi ambienti.
È evidente che stare vicini, molto vicini, agli animali aumenti il rischio di venire in contatto con i loro patogeni. Succede per esempio con la rabbia, trasmessa quasi esclusivamente dai cani domestici tramite morsi e graffi. Questa zoonosi, causata dal virus Lyssavirus, è responsabile di circa 60 mila decessi ogni anno, spesso tra i bambini, ma si può prevenire, tanto negli animali che nell’uomo, grazie a un vaccino.
Le zoonosi con cui dobbiamo fare i conti
La rabbia non è certo l’unica “vecchia” zoonosi con tasso di letalità elevatissimo con cui dobbiamo fare i conti tuttora. La peste, causata dal batterio Yersina pestis e trasmessa dalle pulci dei roditori, non è ancora stata debellata.
Mentre i cani possono trasmettere echinococcosi (infezioni causate da vermi), così come dai gatti, in particolare attraverso le loro feci, la toxoplasmosi (malattia causata dal protista Toxoplasma gondii), pericolosa soprattutto in gravidanza. «Esistono alcune zoonosi legate al rischio professionale come la brucellosi: un tempo tutti i veterinari la contraevano, ma oggi questa malattia può considerarsi pressoché eradicata anche se rimane tuttora in alcune Regioni del Mezzogiorno. Lo stesso si può dire della tubercolosi bovina» riprende Duranti, sottolineando come «in entrambi i casi, lo strumento principe nella lotta alle infezioni sono stati la sorveglianza e il controllo della movimentazione».
Il ruolo degli alimenti contaminati
E di certo anche le pratiche igieniche, come quelle della pastorizzazione: sia la brucellosi, causata da batteri del genere Brucella, sia la tubercolosi bovina, provocata dal batterio Mycobacterium bovis, possono arrivare all’uomo tramite alimenti contaminati, come il latte, oltre che per contatto con animali infetti.
Il consumo di acqua e alimenti contaminati è tra le strade più battute dagli agenti patogeni per raggiungere l’uomo. Il più recente rapporto One Health sulle zoonosi, pubblicato dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) e dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC), dimostra che le infezioni più comuni sono quelle provocate dai batteri Campylobacter, Salmonella e Yersinia enterocolitica (qui un riassunto elaborato da Epicentro). Con alcune variazioni del caso, tutte arrivano all’uomo tramite il consumo di acqua e alimenti contaminati (come carne di maiale, pollo, latte e uovo), così come lo è per la trichinellosi causata dal nematode Trichinella.
Attività di sorveglianza, prevenzione, cura, dialogo tra medici e veterinari, e l’adozione di appropriate norme igieniche rappresentano da sempre i capisaldi nella lotta alle zoonosi. Ma in un’ottica di One Health anche il corretto utilizzo delle armi che abbiamo oggi a disposizione per combattere le infezioni potrebbe aiutare: l’uso indiscriminato di antibiotici rende infatti sempre più difficile combattere le infezioni. Comprese quelle che arrivano dagli animali.